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I giovani e la città: perché la chiave è cercare di capire

Articolo. Gli attuali problemi di ordine pubblico causati in città dalle “bande” di ragazzini ci raccontano qualcosa della condizione giovanile. La questione è sapere ascoltare e mettersi in relazione, anche quando è difficile e i punti di vista sono discordanti con i nostri

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Una foto dal sito del progetto Giovani onde

Degli under 20 non si sa nulla, a meno di non essere insegnanti o genitori, e anche in quel caso ne sappiamo di solito piuttosto poco. Per cercare di dire cose di senso compiuto (e non risultare tra quei “vecchi” dei meme che parlano male dei giovani) ho chiesto aiuto a un coetaneo neo quarantenne come me, Francesco Maffeis, educatore e coordinatore del progetto « Giovani onde ». È possibile che ne abbiate sentito parlare in relazione ai recenti fatti di cronaca, che hanno avuto per protagonisti ragazzini che stazionano in zone della città come Propilei, stazione, piazzale Marconi e piscine rendendosi protagonisti di risse, episodi di bullismo e vandalismo, piccoli furti. Non propriamente baby gang, perché non c’è nessuna banda organizzata né un’emergenza criminale vera e propria. Si potrebbe riassumere il tutto con l’espressione «disagio giovanile» che – nello specifico – riguarda poche centinaia di ragazzi a Bergamo.

Già “contarli” è un’impresa, avvicinarli ed entrarci in relazione ancora di più. Ma è la strada che ha intrapreso il Comune di Bergamo, e in particolare l’assessorato alle Politiche giovanili, che all’azione di repressione preferisce aggiungere quella educativa, attraverso gli operatori di «Giovani onde» e altri come il Servizio minori e famiglie. Perché la via penale – punire, punire di più – quieta l’emotività ma lascia irrisolti i problemi.

«Io coordino, ma chi scende in strada con i ragazzi sono tre educatori under 30, mi è capitato di sostituire qualcuno di loro durante il periodo di ferie ma non è assolutamente la stessa cosa» commenta Maffeis. L’età dei ragazzi da intercettare è sempre più bassa, fra i 12 e i 18 anni. «Lavoriamo in particolare su tre territori, con caratteristiche differenti. A Valtesse si tratta di una quarantina di giovani, piuttosto legati alla loro rete territoriale e alle famiglie. Al Villaggio degli Sposi sono una via di mezzo, mentre in centro città vengono i residenti dei quartieri limitrofi e i cosiddetti city users, che arrivano da fuori, e alcune problematiche sono più evidenti».

Un identikit

Chi sono quindi questi teenagers? «La maggior parte dei gruppi sono maschili, ma ci sono anche tante ragazze molto esposte al rischio, fragili, che cercano relazioni e non riescono a trovare canali positivi». Non è vero che sono tutti stranieri: «È un movimento includente, non escludente, non c’è suddivisione etnica, possono trovarsi insieme ragazzi rumeni, senegalesi o della Val Seriana. Più che parlare di gruppi giovanili ci sembra un movimento che accomuna giovani che vedono nell’appropriarsi dei luoghi la loro cifra». Non parliamo di situazioni di grave marginalità, sottolinea l’educatore: «Non sono giovani vicini al finire sulla strada e neanche tossicodipendenti, per quanto esista un limitato consumo di sostanze».

Non c’è nessuna una specificità “bergamasca”: «I temi sono comuni a molte città del Nord Italia, per questo abbiamo avviato un percorso di scambio e buone pratiche, in particolare con Parma e Trento, che dovrebbe confluire in autunno in un manifesto educativo di strada» anticipa Maffeis.

Gli spazi

La prima questione, molto semplice, è: quali sono gli spazi della città adatti ai giovanissimi? È una domanda che non riguarda solo i giovani “devianti”, ma tutti i teenager. Da genitore di figli piccoli, under 6, noto spesso la pretesa di relegare i bambini negli spazi di loro competenza (asili, parchetti, camerette) perché altrove non sono sicuri o danno disturbo. Ma questo è ancora più vero per i ragazzini, che a giocare sullo scivolo ai giardinetti non ci vanno più.

Quali sono, quindi, gli spazi dove può legittimamente stare un quindicenne? A scuola, una volta finita la (troppo) lunga pausa estiva. In spazi organizzati come società sportive e oratori, che però non tutti amano o hanno a disposizione. A casa, davanti a uno smartphone. Se un ragazzo rimane negli spazi pubblici della città è facilmente di disturbo: non è un consumatore (ha – di solito – pochi soldi da spendere), tende a fare gruppo con i suoi simili e a diventare molesto. Non parlo specificatamente di giovani “problematici” o di reati veri e propri, ma della naturale propensione degli adolescenti a “fare casino”, essere allergici alle regole, strafottenti, muoversi in branco, sfidare i limiti. Quanto questo si traduca in comportamenti gravi o pericolosi per sé e per altri dipende da tanti fattori: la famiglia di origine, la rete sociale, gli adulti di riferimento, l’uso di sostanze, le politiche giovanili e così via.

Esercitare la tolleranza

«Il nostro primo obiettivo è stare negli spazi informali occupati dai ragazzi per conoscerli, successivamente ascoltarli e capire le loro esigenze. Gli adulti devono essere disponibili, mettersi in contatto e tollerare punti di vista discordanti da loro» spiega Maffeis.

Ad esempio, un luogo importante per i ragazzi è la stazione della TEB, perché è un crocevia di passaggio e rappresenta un ambiente street molto presente nella cultura trap di riferimento. «Siamo stati contattati perché gruppi di giovani disturbavano l’andirivieni del tram buttandosi il pallone da un lato all’altro dei binari, occupando le panchine destinate ai passeggeri e altri comportamenti poco consoni. Abbiamo cominciato il nostro intervento portando dei grandi mandala da colorare, per riuscire a fermarli e entrare in relazione. Da lì è nato un percorso che ha visto la realizzazione di un murales in collaborazione con Paolo Baraldi».

La scritta dice: «Zona zero», che è come i ragazzi chiamano la stazione. Un modo per riconoscere la loro identità e il loro desiderio di appropriarsi dei luoghi. «La chiave è tutta lì, cercare di capire. Sembra che i ragazzi siano a ciondolare e fare niente, ma non è così, sono lì per aggregarsi, scambiarsi idee, trovare spazi dove esprimersi. Poi ci sarà chi vuole solo fare casino ed è necessario per tutti scendere ad alcuni compromessi. Il nostro lavoro è lì, tra le linee. Fra loro abbiamo intercettato una decina di ragazzi aiutandoli a partecipare al bando di “ Imagine ”, che hanno vinto. Ora stanno realizzando un cortometraggio sul tema delle seconde generazioni. Il nostro intervento è sui grandi numeri, ma facciamo la differenza su piccoli numeri».

Lo sport

Aspetto cruciale è lo sport, con la richiesta di spazi dove praticare attività fisica in maniera informale. «Ci sono le società sportive, ma non tutti vogliono o possono pagare l’iscrizione e, soprattutto, non tutti sono disposti ad assumersi un impegno continuativo» spiega Maffeis.

Perciò si cercano spazi dove fare palestra all’aperto, gratuitamente, senza strutture e senza vincoli. Ne è un esempio il Calisthenics (dal greco kalós, «bello», e sthénos, che significa «forza») cioè l’allenamento a corpo libero basato sulla ginnastica e su esercizi svolti anche in strada, ma anche i classici campetti dove giocare a calcio o a basket liberamente. C’è poi chi si dedica al ballo, specie sotto i portici del Centro Piacentiniano.

Non è nulla di straordinariamente innovativo, pensandoci. Anzi, sono concetti che riportano al passato: al calcio giocato per strada o – per noi bergamaschi – a Simone Moro che si allenava sulle Mura di Città Alta.

Non c’è una formula magica

Fosse un film, alla fine filerebbe tutto liscio e ognuno troverebbe la sua strada. Ma non è così, si procede per tentativi e non è detto che vada “tutto bene”. «Alle piscine Italcementi siamo andati su richiesta di Bergamo Infrastrutture che presentava il problema di ragazzi che scavalcano per entrare, non rispettano il regolamento, sfidano gli adulti, arrivando a commettere qualche piccolo furto. Siamo stati lì tre pomeriggi alla settimana durante l’estate, cercando di costruire modalità di convivenza e riprodurre il modello TEB, ma ci abbiamo capito ancora poco» ammette Maffeis.

Il lavoro è anche con gli adulti: le reti di quartieri, la Polizia Locale, gli oratori, le associazioni, i negozianti. «Abbiamo il grande supporto dell’amministrazione comunale e della Polizia Locale, che ha un approccio umano e di vicinanza. Abbiamo fatto incontri per reciproca conoscenza e lavoriamo con loro perché il ruolo della polizia non sia ostile. Da questa estate abbiamo intensificato anche i rapporti con il Servizio Minori e Famiglie e spesso gli operatori escono insieme. L’obiettivo è capire se i ragazzi che intercettiamo provengono da famiglie già seguire, perché nulla sappiamo della loro provenienza».

Le soluzioni facili e valide per tutti non esistono, neanche quelle repressive lo sono. Nonostante tutto, «le sfide sono secondo noi affrontabili e deve esserci uno sforzo di tutti, anche rimettendo mano all’offerta per i ragazzi assecondando i loro punti di vista».

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