I Giochi più tristi
Ma cresce la speranza

I Giochi più tristi, difficili e contestati della storia. Sì, ma anche i Giochi della commozione, della speranza, dell’attesa rinascita e di una ancora più sincera fratellanza. Nell’Olimpiade di Tokyo 2020, che si disputa nel 2021, e un anno di ritardo dice già tutto, convivono pensieri ed emozioni agli antipodi. È una perfetta rappresentazione del mondo attuale, di una vita che vede l’orizzonte ma continua a camminare su un filo sospeso nel vuoto. La prima immagine, che squarcia il buio di uno Stadio Olimpico vuoto e maestoso, è quella di una atleta che corre da sola sul tapis roulant ai tempi del lockdown ed è un po’ l’immagine di ognuno di noi: abbiamo sofferto il Covid, ci siamo scoperti indifesi, abbiamo dovuto sopravvivere confidando sulle nostre forze. Nella sua semplicità è di grande impatto emotivo, fa riflettere e a emergere è la speranza perché i Giochi non sono stati cancellati, non sono stati inghiottiti dalla pandemia e 11 mila atleti sono atterrati a Tokyo per partecipare, possibilmente per vincere ma già la loro presenza dice che l’umanità si rialza sempre.

La fiamma olimpica come luce di vita. Al motto olimpico, che è in latino, tradotto nell’inglese «Faster, higher, stronger» («Più veloce, più in alto, più forte»), il Cio, ovvero il Comitato internazionale olimpico, ha aggiunto la parola «Together» (« Insieme») per rafforzare l’idea della solidarietà nel più tragico momento del mondo dopo la Seconda guerra mondiale. L’immagine di uno sport che è rinato stride però collegandola alle proteste inscenate da centinaia di giapponesi fuori dallo stadio. E se i cittadini della megalopoli hanno protestato, parliamo di giapponesi, un popolo non incline a ribellarsi all’ordine costituito, vuol dire che, sì, i Giochi sono salvi, però - al di là del rischio fondato di una recrudescenza dei contagi in un Paese nel quale la campagna di vaccinazione procede alla velocità di una tartaruga (solo al 23,3% della popolazione sono state somministrare due dosi, una al 35,3%; dati al 20 luglio) - è e sarà un bagno di sangue sul piano finanziario e a pagare saranno in primis i contribuenti giapponesi: si parla di 14 miliardi di euro.

Ecco perché l’80% del Giappone è contrario all’Olimpiade in tempo di pandemia. A Rio 2016 l’allora premier Shinzo Abe si era trasformato in Super Mario per dare l’idea, in uno showdown, dello spettacolo che avrebbe sorpreso il mondo a Tokyo 2020 e invece la realtà è radicalmente diversa, è pesante e cupa, anche se fa capolino la speranza. La capitale giapponese era stata scelta dal Cio nel 2013, quando il Giappone era in fase di ripresa dopo il terribile tsunami e il disastro nucleare di Fukushima del 2011. C’erano state polemiche già allora che sono riesplose con la pandemia. Sarebbe dovuto essere un’Olimpiade economicamente da record, ma i primati saranno al contrario. Erano stati già venduti 600 mila biglietti, ma non ci saranno spettatori alle gare, era stata stimata una presenza di 40 milioni di turisti nel corso dell’anno ed è stato inevitabilmente un flop clamoroso.

Il rinvio di un anno, dal costo stimato di 2,4 miliardi, è stato ripianato da un’entrata di 3 miliardi elargiti da una settantina di sponsor internazionali. Però il persistere della pandemia e il voler salvare i Giochi, sia pure blindandoli, ha determinato il crack. I due autorevoli quotidiani Nikkei e Asahai non parlano di 14 ma addirittura stimano un costo di 23,7 miliardi (annullare i Giochi sarebbe costato 18 miliardi). Nel 2013 la previsione del comitato organizzatore era stata di meno di 6 miliardi. Se Tokyo piange, ma le città teatro di un’Olimpiade non ridono quasi mai, tanto che forse ci si dovrebbe domandare il senso di format così faraonici, il Cio si è salvato. Sì, perché i diritti televisivi - esaltati dall’assenza di pubblico - hanno garantito 4,4 miliardi consentendo al Cio di azzerare i danni. Ora godiamoci due settimane di sport, di primati, di ori, il più possibile italiani, di lacrime di gioia e di disperazioni. Andiamo avanti, ripensando all’atleta in tapis roulant.

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