Il crac bancario, ora il re è nudo

Mondo. Il celebre investitore statunitense Warren Buffett, soprannominato «l’oracolo di Omaha», una volta ha detto che «soltanto quando la marea si ritira, si scopre chi stava nuotando nudo».

Un’osservazione adatta a descrivere svariati scenari finanziari, incluso quello del crac della Silicon Valley Bank che da venerdì scorso ha scosso analisti, investitori e cittadini in tutto il mondo occidentale. Gli errori di gestione della banca californiana, infatti, si sono mostrati in tutta la loro evidenza e gravità soltanto nel momento in cui la Federal Reserve di Washington ha insistito sul rialzo dei tassi d’interesse, ritirando appunto moneta e liquidità dal sistema per contrastare l’inflazione.

Una volta che la «marea» si è ritirata, in questo caso, cosa è rimasto dunque in bella mostra? Un macroscopico squilibrio tra attività e passività di bilancio di una banca che all’improvviso si è trovata a fronteggiare significative richieste di liquidità dei clienti; per rispondere a tali richieste, lo stesso istituto ha iniziato a vendere i molti (troppi) titoli a lunga scadenza che aveva in pancia, inclusi titoli di Stato statunitensi, incorrendo in perdite a causa del rialzo dei tassi. Da qui le difficoltà a portare a termine un aumento di capitale e poi, una volta che tali difficoltà sono diventate di dominio pubblico, la «corsa agli sportelli» da parte dei correntisti.

In attesa di valutare appieno le conseguenze dell’episodio, e all’indomani di una giornata che ha visto fortunatamente le Borse europee recuperare terreno, sono almeno tre le considerazioni possibili rispetto all’accaduto. In primo luogo, va sottolineata la specificità del caso della Silicon Valley Bank. Parliamo infatti di una banca certo non piccola ma comunque «regionale», come altre che sono entrate in sofferenza in queste ore; un istituto di credito con sede a Santa Clara, in California, con attività concentrate in un comparto dell’economia mediamente rischioso, cioè le start up tecnologiche. Le aziende hi-tech degli Stati Uniti hanno sofferto in modo particolare le conseguenze dell’innalzamento dei tassi da parte delle Banche centrali; la stretta monetaria ha «sgonfiato» valutazioni di Borsa a volte esagerate, ha messo fine a una fase di boom vissuta dalle stesse società perfino durante la pandemia, e ha prosciugato altri canali di finanziamento (come i fondi di venture capital). Un contesto, insomma, nel quale gli errori di management si possono pagare ancora più cari del solito.

Inoltre in questi giorni è stato più volte osservato - in maniera trasversale da analisti, rappresentanti di governo, autorità e settore bancario - che per gli istituti di credito del nostro continente sono previste regole più rigide rispetto a quelle che riguardano le banche (regionali) americane. Il riferimento è agli accordi di Basilea 3, alle norme sulla solidità patrimoniale degli istituti di credito, come pure al fatto che le nostre banche sono chiamate dal regolatore a garantire un’adeguata liquidità e un corretto equilibrio tra attività e passività.

La terza considerazione, però, è meno confortante. Finora infatti, nel dibattito pubblico, ci siamo soffermati soltanto su alcuni effetti «macro» del rialzo dei tassi, parlando del costo dell’indebitamento che cresce per cittadini (vedi i mutui), imprese (vedi prestiti) e Stati sovrani (rendimenti sui titoli di Stato). Meno attenzione è stata dedicata alle molteplici conseguenze «micro» di questo nuovo «habitat» per la nostra economia, al quale non siamo più abituati da quasi un ventennio. Ora che la marea della liquidità si sta ritirando anche in Europa, faremmo bene - ciascuno nel suo settore e nel suo ruolo - a non farci scoprire nudi.

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