La dignità umana e l’ambiguità da evitare

ITALIA. «Dignità umana» concetto chiaro, anzi equivoco. La dignità dell’uomo è punto di riferimento per i testi legislativi che si ispirano alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948.

In biologia e medicina serve a proteggere l’integrità fisica dell’essere umano da eventuali manipolazioni come modificare il genoma o il cervello di una persona o usare i suoi organi come «pezzi di ricambio» per qualcun altro. Di fronte ai progressi della scienza biomedica e alla possibilità di sperimentazione su embrioni parve necessario affermare il rispetto della dignità della vita umana per esprimere due esigenze irrinunciabili della convivenza civile: il valore di ogni persona e la tutela della specificità dell’essere umano e delle sue caratteristiche somatiche e psichiche.

Il fondamento più forte per proteggere la dignità dell’uomo è sempre stato quello kantiano: nessuno può mai essere trattato solo come mezzo, ma sempre come un fine. A questo venne aggiunto, in ambito credente, l’affermazione della «sacralità della vita». Si riteneva così di poter mettere fine agli scempi commessi su donne, bambini e disabili nei campi di concentramento nazisti, alle sperimentazioni su detenuti o a test nucleari su popolazioni inconsapevoli. Ma così non è stato. Oggi si sostiene che il «potenziamento» (enhancement) del corpo o della mente, attraverso mezzi artificiali, possa essere fatto, se ha come scopo migliorare le prestazioni di un individuo, partendo da una «condizione di integrità» e non da uno stato di malattia o disabilità. Non si tratta solo di protesi per mani o gambe come rimedio a disabilità, ma di interi organi sintetici o biomeccanici in grado di sostituire parti del corpo umano. Ma così è ancora salvaguardata la specificità dell’essere umano o dobbiamo pensare a una forma ibrida di uomo e macchina? E cosa dire del «valore della persona umana» di fronte alle stragi di bambini a Gaza e in Ucraina, al traffico di organi e tessuti umani, allo sfruttamento sessuale, al lavoro schiavizzato, senza dimenticare il femminicidio, l’aborto provocato o la pratica dell’utero in affitto? Tutte gravi violazioni della dignità della persona e della vita umana in quanto tale.

Dignità è diventato un concetto ambiguo. C’è chi parla di «diritto di morire con dignità» e intende riferirsi all’eutanasia o al suicidio assistito come una delle «cure possibili del fine vita». Morire con dignità sarebbe così poter decidere come e quando mettere fine alla propria vita o a quella di un altro, qualora ci fossero sofferenze insopportabili, malattie gravi o disagio psicologico. C’è poi chi afferma l’esistenza di una «vita degna di essere vissuta» e una altrettanto «indegna», se mancano alcune facoltà intellettuali, motorie o relazionali. Mettendo in discussione quella di persone down, con distrofia o con malattie neuropsichiatriche o neurodegenerative. La dignità diventa così una qualità che è possibile avere solo se si hanno determinate capacità. Qualcosa che non appartiene più all’essere umano in quanto tale o per il fatto di essere a immagine di Dio, ma gli viene attribuita se raggiunge un certo standard o può perdere se scende sotto un minimo di funzionalità e utilità sociale. Insomma la dignità come una patente a punti. Vige anche l’equivoco di chi parla di «dignità della persona» e non di «dignità umana» perché intende per persona solo «un essere capace di ragionare» per cui non avrebbe dignità il feto o il neonato anencefalico e neppure il malato di Alzheimer.

Per ovviare a questa ambiguità si può pensare a una «dignità ontologica» che indica la preziosità dell’essere umano in senso universale, semplicemente in virtù del fatto che «è» un essere umano. Detto altrimenti: ogni uomo è dotato di dignità perché è uomo, non è uomo perché dotato di dignità. Tale dignità non può mai essere persa né violata. Tuttavia questo non garantisce dall’essere trattati con dignità e poter vivere degnamente. Non è sufficiente affermare la dignità, come un principio assoluto, se poi non viene rispettata o non si è messi in condizione di svolgere una vita dignitosa. Nessuno dovrebbe essere tratto in modo da perdere la stima di sé, eppure quanti comportamenti ledono non solo i diritti della persona, ma anche la sua possibilità di presentarsi in modo conveniente, adatto a un essere umano. E questo riguarda anche il modo con cui l’autorità tratta i cittadini o l’azienda i suoi operai.

La «dignità sociale» è offrire a tutti la possibilità di realizzare le proprie aspirazioni, lavorando, contribuendo al bene della società, ma prima ancora assicurando il rispetto che gli è dovuto. Paradossalmente nei momenti in cui si è più fragili, indifesi, malati, anziani, disoccupati, invece di veder maggiormente tutelata la propria dignità si rischia di perderla. Mentre, proprio in queste circostanze, il riconoscimento sociale del nostro valore dovrebbe raggiungere il suo massimo di garanzia e promozione. Non arrendiamoci alla logica mercantilistica, dove tutto ha un prezzo e un costo, che tende a influenzare anche le scelte politiche di gestione della «cosa pubblica». La dignità sta nello sguardo, in quello che riesci a «vedere» nell’altro e quanto più uno ha perso o non ha avuto, tanto più è degno di considerazione e rispetto, degno di aiuto, degno del mio amore.

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