L’abisso Sudan e il mondo tace

MONDO. Le guerre che più o meno direttamente non coinvolgono gli Stati Uniti e l’Europa, raramente arrivano al dibattito pubblico. Non ci sono responsabilità occidentali da chiamare in causa né un pericolo che ci minaccia.

Un anno fa è iniziato l’ennesimo conflitto in Sudan, definito «civile» ma che è contro i civili. Secondo le Nazioni Unite, è in corso uno «dei peggiori disastri umanitari della storia recente», 9 milioni di persone hanno dovuto lasciare le loro case (tre milioni soltanto nella capitale Khartoum), molte migliaia di morti (numeri ufficiali non ci sono). Nel 2024 potrebbero perdere la vita, sempre secondo l’Onu, 700mila bambini sudanesi malnutriti. Per Medici senza frontiere (Msf) «solo il 25% degli ospedali è ancora in funzione», il 40% dei 50 milioni di abitanti non ha abbastanza cibo. Nel campo profughi di Zamzam, in Darfur, il personale di Msf ha rilevato l’aumento della mortalità infantile: un bambino muore di fame ogni due ore. Nei prossimi mesi l’emergenza si aggraverà.

Il Sudan è il terzo Paese più grande dell’Africa. Ricco di risorse naturali e crocevia strategico fra Mar Rosso, Corno d’Africa e Sahel, è una zona d’interesse per molti attori regionali e globali anche per il ruolo che ha nei flussi migratori. Il conflitto iniziato il 15 aprile 2023 è stato causato dalla rivalità tra due fazioni militari prima alleate che governavano insieme: le Forze armate sudanesi (Saf) guidate dal generale Abdel Fattah al-Burhan e le Rapid support forces (Rsf) comandate dal generale Mohamed Hamdan Dagalo (detto Hemetti). Nel 2019 la mobilitazione di massa della società civile aveva portato alla rimozione del dittatore Omar al-Bashir, segnando la fine di uno dei regimi più longevi in ​​Africa. Al-Bashir fu sostituito da Abdollah Hamdok, sostenuto dagli Stati Uniti, che avrebbe dovuto guidare il Paese verso una transizione democratica mai realizzata. Quando il nuovo primo ministro promosse una riforma dell’esercito per epurare le forze militari rimaste fedeli all’ex regime, tra cui le Rsf, queste ultime hanno preso il potere con un golpe, il 25 ottobre 2021.

Da allora, il generale al-Burhan ha interrotto la transizione democratica, istituendo il Consiglio sovrano di cui era a capo con Dagalo, secondo in comando. L’alleanza però si è interrotta quando il primo, accettando un accordo internazionale per restituire la guida a un’amministrazione civile in cambio di aiuti economici, ha deciso di far confluire le Rsf nell’esercito regolare sudanese. Una scelta avversata da Degalo che temeva di perdere il suo potere. Da allora le due fazioni si combattono senza alcun riguardo per la popolazione . Gli uomini delle Rapid support forces in particolare saccheggiano, stuprano, fanno pulizia etnica avanzando alla conquista di terre e di supremazia: in Darfur la situazione è peggiore rispetto al 2005, quando la regione fu preda delle violenze dei «janjaweed», si muore di fame e di esecuzioni di massa.

Riviste specializzate hanno definito la guerra in Sudan nel silenzio del mondo «la Srebrenica d’Africa». Non è in corso alcun tavolo negoziale. Egitto, Turchia e Iran sostengono i governativi del generale al-Burhan, Emirati Arabi, Ciad e Russia appoggiano il generale Hemetti. Anche in questo tragico teatro di conflitto le Nazioni Unite confermano di essere il grande assente della ribollente politica internazionale, per decisione delle potenze mondiali che siedono nel Consiglio di sicurezza con seggio permanente. Intanto la crisi umanitaria e sociale in Sudan si aggrava ogni giorno di più: l’agricoltura è ferma, la sanità al collasso, milioni di studenti non vanno a scuola. L’Onu ha lanciato un appello per raccogliere tre miliardi di dollari da investire in aiuti, finora è stato donato solo il 6%. La Francia ha organizzato una conferenza per mobilitare il sostegno umanitario e il Regno Unito sta introducendo sanzioni contro le Rsf. Soltanto i sudanesi si occupano di se stessi, attraverso tenaci forme di solidarietà. Ma questa straordinaria rete di sostegno - si condivide tutto il poco che c’è - non può reggere all’assenza di un’iniziativa internazionale. Nel luglio 1995 a Srebrenica 8mila uomini furono trucidati uno a uno da milizie serbo-bosniache in pochi giorni: l’Onu, che aveva lasciato la città bosniaca a ridosso del massacro, lo definì poi genocidio. Avvenne nel silenzio del mondo, come la Srebrenica d’Africa.

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