Le Dittature e l’errore di non capire la libertà

Per una comprensione più profonda di quello che sta avvenendo da oltre 100 giorni in Ucraina, bisognerebbe modificare l’oggetto dell’analisi. Anziché concentrarsi prevalentemente sull’autocrate, bisognerebbe interrogarsi di più sull’autocrazia. Sarebbe molto più utile alla nostra democrazia, e alla cura che dobbiamo avere per preservarla. Oltretutto, caduto un Vladimir Putin, la macchina è prontissima a fabbricarne un altro, magari anche peggiore.

È paradossale, ma sull’essenza del dilemma democrazia/dittatura ha le idee più chiare di noi proprio lui, Putin, che è profondamente convinto - addirittura la considera una missione, mescolata a quella della grande Russia - che uno Stato non può essere gestito con le pratiche della libertà, che sono lunghe, contraddittorie, contorte. La convinzione è che in fondo il cittadino preferisca l’uomo forte, o un apparato forte, come poteva essere il Pcus o come possono essere tanti autoritarismi di destra. Anche la distinzione destra/sinistra non ha senso, è fumisteria ideologica. E in effetti una dittatura è una dittatura. Forse l’Urss era di sinistra?

Da questa semplificazione anche l’uomo moderno non è esentato. La stessa antipolitica, ultimamente vincente in Occidente, è una delle tante forme per esprimere e giustificare l’apparente confortevole separazione delle responsabilità: a te il potere, a me la tranquillità, l’ordine, se possibile il benessere, o una più facile soddisfazione dei bisogni primari. In Urss, in fondo, non c’era la disoccupazione e tutti avevano una casa. Magari una stanzetta, ma almeno senza disuguaglianza, che si assume essere una conseguenza della democrazia. Non a caso, sulla disuguaglianza si consumano i grandi drammi contemporanei, sia all’interno delle realtà democratiche che a livello mondiale, con la globalizzazione che le evidenzia, e i processi migratori che si affermano con prepotenza.

Nella dottrina politica è roba vecchia. Etienne de la Boetie, nel XVI secolo, pubblicò uno «Scritto sulla servitù volontaria». «Si vuole l’indipendenza e si trova la dipendenza». Mi faccio i fatti miei, ma poi sono altri a decidere per me. Oggi la dipendenza può essere mediatica o digitale. La libertà è faticosa e persino lo stato di diritto sembra ingiusto. Non si possono tagliare le baby pensioni che a taluni paiono anacronistiche perché non è ammissibile la soppressione di un diritto acquisito, e non si possono portare a processo gli assassini di Giulio Regeni semplicemente perché non gli si può recapitare gli atti giudiziari. Ci si arrabbia, ma guai se potessimo cambiare a posteriori le regole. Sta qui la nostra civiltà. Quelli come Putin considerano invece questi ragionamenti una debolezza, un indice della fragilità dell’Occidente e della sua probabile incapacità di reagire se sfidato. A Kiev non è andata così e lo zar ha fatto innanzitutto un clamoroso errore politico. Le democrazie liberali in realtà sanno difendersi meglio anche in guerra, perché difendono qualcosa di proprio, di non delegato ad altri. Ma solo in questi casi estremi ci si accorge che l’antipolitica, emotivamente affascinante, è pericolosa, un boomerang.

La politica è parte della libertà. L’aggressione ad un Paese confinante è insomma solo un lineare sviluppo di un processo che parte da lontano: la superiorità della presunta efficienza delle autocrazie rispetto al parlamentarismo, ai partiti e alle miserie umane che una democrazia mette in luce. Con però la possibilità sempre di correggersi. L’errore più grande, per noi che viviamo nel mondo minoritario della democrazia liberale, sarebbe dunque quello appunto di ritrarsi, di voltarsi dall’altra parte, di registrare con fastidio le conseguenze del nostro schierarsi. Tanti hanno pensato che una conquista lampo di Kiev sarebbe stata più conveniente. Un po’ di lacrime di coccodrillo e via, senza rischi e tributi da pagare a quell’antipatica Nato e ai prepotenti Usa. Se la vedessero i russi, purché non ci facessero mancare il gas.

Tutte le contorsioni dialettiche che crescono in casa nostra e sui nostri schermi tv chiamano pace e trattative sentimenti un po’ meno nobili. È il versante ipocrita della libertà. Ma almeno possiamo denunciarlo.

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