Le stragi in Ucraina e l’obiettivo di dividere

IL COMMENTO. Almeno 11 morti: è il bilancio parziale dell’ennesimo bombardamento dell’esercito russo su un condominio in Ucraina. È avvenuto nella regione di Donetsk, in quel Donbass spesso raccontato come luogo dove le vittime sono solo russofile, nel primo tempo del conflitto in corso iniziato nel 2014.

Un rapporto del 27 gennaio 2022 dell’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani riporta il numero dei morti durante la guerra, dal 2014 a fine 2021: almeno 3.404 civili, per il 60% russofili, circa 4.400 soldati ucraini e 6.500 membri dei gruppi armati separatisti sostenuti dal Cremlino. Le stragi fra la popolazione non fanno più notizia: ma solo Kherson, situata fra il Donbass e la Crimea, è colpita da una media quotidiana di 70 fra colpi di artiglieria e missili lanciati dai militari russi che a novembre avevano lasciato la città per assestarsi su una sponda del fiume Dnepr e da lì prendere di mira obiettivi prevalentemente civili.

Intanto Evgenij Prigozhin ha pubblicato su un canale Telegram un lungo testo che si presta a diverse letture. Il titolare della «Wagner», la più potente legione di mercenari nel mondo, attiva in Africa e in qualunque scenario dove la Russia coltivi qualche interesse economico e strategico, impegnata nel Donbass con 60mila uomini, ha affermato che «la prossima controffensiva ucraina ha più probabilità di successo che di fallimento». Prigozhin ammette poi che l’esito della feroce battaglia di Bakhmut «non ha un ruolo strategico così importante, e non garantirà una vittoria definitiva sull’Ucraina». Chiama quindi in causa lo «Stato profondo» russo che definisce come «una comunità di élite vicine allo Stato che operano indipendentemente dalla leadership politica e hanno stretti legami e una propria agenda», attualmente in crisi a causa degli insuccessi dell’esercito della Federazione nel garantire una vittoria in tempi rapidi.

Il capo della «Wagner» accusa i membri di questo «Stato profondo», inseriti nella burocrazia, di sabotare deliberatamente il successo russo nella guerra, perché cercano di riprendere la loro vita privilegiata e confortevole. Invita poi Vladimir Putin a proporre agli Usa un negoziato teso a preservare «gli attuali confini, quelli del 24 febbraio del 2023», comprensivi quindi delle quattro province annesse a Mosca con i referendum farsa dello scorso settembre, quasi il 20% del territorio dove veniva prodotto il 25% del Pil ucraino. Se il governo di Kiev non accetterà, che sia allora «una battaglia onesta fino alla vittoria». Il peso al fronte dei miliziani della «Wagner» ha permesso a Prigozhin di assumere anche un ruolo politico: i suoi messaggi contraddittori confermano però l’esistenza di quello «Stato profondo» stanco del conflitto. Il governo di Kiev peraltro punta sul successo della controffensiva prevista entro maggio. In seconda battuta nel fattore tempo per allargare le crepe nel potere putiniano costruito intorno agli uomini della «Fsb», l’ex Kbg.

Ma sul fattore tempo conta anche il Cremlino: il perdurare della guerra potrebbe sfilare Paesi occidentali che forniscono armamenti all’Ucraina, anche in seguito a elezioni e a successivi cambi di governo. La Russia intanto rafforza la presenza militare sul campo cambiando il sistema di coscrizione: ai richiamati alle armi verrà recapitata la convocazione nei centri di addestramento via mail, non più tramite lettera. Basterà l’invio del messaggio, senza la risposta, per ritenerli precettati e non potranno più lasciare il Paese.

Sul fronte diplomatico, resta in piedi il cosiddetto «piano di pace» di Pechino. Ma il presidente cinese Xi Jinping, dopo aver incontrato Putin a Mosca, non ha ancora chiamato il suo omologo ucraino Volodymyr Zelenskyj, confermando l’ambiguità di una posizione che non permette di considerarlo vero mediatore. Il martoriato popolo ucraino meriterebbe ben altro impegno.

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