L’errore di Putin sull’Europa e il futuro

Esteri. «Siamo nel bel mezzo di una guerra in Europa e dopo un anno non se ne vede la fine»: il rammarico dell’influente intellettuale americano Michael Walzer, l’ultimo dei grandi liberal, nel condannare senza mezzi termini Putin rende bene il contesto del disastro compiuto dallo zar che, anziché spegnere l’incendio, rilancia le ostilità aumentandone l’intensità.

In quello che è un conflitto fra democrazie e autocrazie, Biden, parlando da leader dell’Occidente nel suo viaggio a Kiev e a Varsavia, è stato netto: «Questa guerra non è mai stata una necessità, è una tragedia. Putin ha scelto di farla». Un anno dopo il despota del Cremlino deve contemplare e raccogliere ciò che ha seminato: un paesaggio di rovine, un numero terribile di vittime ucraine innocenti, 200mila soldati russi mandati a morire al fronte e il fallimento di una strategia imperniata sulla scommessa che l’Europa non avrebbe retto l’urto economico e che si sarebbe divisa.

Non è stato così, almeno finora. È successo il contrario e anche per questo rimane essenziale la solidarietà concreta al popolo ucraino. La Nato, data per morta tempo fa da Macron, è resuscitata e due Stati tradizionalmente neutrali come Finlandia e Svezia sono in lista d’ingresso. Un Paese come la Germania, i cui vincoli storici contano eccome, ha deciso un programma di Difesa senza precedenti. L’Europa è stata spinta ancora di più nelle braccia degli Stati Uniti.

A Biden è riuscito ciò che sembrava impossibile: ricompattare gli alleati, tant’è che oggi, piaccia o meno, Europa e Nato tendono a coincidere. In più c’è il serrare le fila degli ex satelliti dell’Urss, Polonia in testa, la prima linea che si sente sotto attacco, spostando il baricentro dell’Ue dall’Europa carolingia franco-tedesca all’area cuscinetto a ridosso della Russia che guarda a Ovest, più a Washington che a Bruxelles. Un’Europa sospesa, di nuovo in transizione verso un futuro che non conosciamo, dove oggi l’Ucraina, l’ultima frontiera delle società aperte, può essere vista come l’equivalente della Germania di Bonn al tempo della Guerra fredda. Come ha scritto Adriana Cerretelli sul «Sole 24 Ore», l’America di Biden, fra Kiev e Varsavia, sta ridefinendo il perimetro dell’Alleanza atlantica e l’ordine internazionale scosso dall’aggressione di Putin che si gioca il proprio avvenire da autocrate. Questo sta avvenendo in un continente in cui la storia accelera su due fronti.

Il primo è quello della sicurezza collettiva, un concetto che, specie nel post Covid, ha acquisito un’importanza che prima non aveva. Il secondo è che in 12 mesi sono state smontate convinzioni in vigore dal crollo del Muro di Berlino, come il punto fermo alla base della globalizzazione e del modello tedesco-europeo: dove passano le merci non passano gli eserciti.

La guerra in Ucraina ha brutalmente interrotto tale traiettoria, basata sull’idea che il business avrebbe addomesticato e trasformato gli avversari storici in buoni clienti, destinati a diventare parte del nostro club. C’è però l’altra faccia della medaglia in quella che si ritiene sia l’imminente campagna di primavera dell’Armata putiniana, nel quadro di un’escalation militare. L’uomo del Cremlino ha dalla sua il tempo e la quantità di uomini di cui può disporre, mentre i Paesi che sostengono la resistenza ucraina devono misurarsi con la tenuta dei sistemi democratici: consenso delle opinioni pubbliche, stanchezza dei cittadini alle prese con gli effetti socio-economici e dentro culture e sensibilità consensuali, a disagio in situazioni di contrapposizione frontale.

Vale per tutti, in particolare per l’Italia, la società più fredda in materia, mentre il governo Meloni (nonostante Berlusconi) si muove in continuità con l’esecutivo Draghi. È una questione molto sensibile e delicata, anche perché purtroppo una soluzione negoziale appare lontana: lo stesso Kissinger, ascoltato principe della realpolitik, ha dismesso i toni concilianti verso Putin e pure Macron, che più di altri si era speso per non chiudere al dialogo con il Cremlino, s’è visto costretto a ripensarci.

Un veterano qual è Biden, alla guida di un’America non pacificata, conosce i rischi di alzare l’asticella. Fin qui, dinanzi alle ambizioni imperiali del Cremlino, ha usato il doppio standard di sollecitare gli alleati più prudenti e di frenare i più inquieti, circoscrivendo il quadro d’insieme. Equilibri complessi di cui conosciamo solo ciò che ci è dato sapere e che in definitiva rinviano a una serie di interrogativi: fin dove ci si può spingere per piegare Mosca, per convincerla che non potrà vincere la guerra, qual è la soglia oltre la quale può subentrare una tregua o un eventuale negoziato con gli inevitabili compromessi. Prima o poi il problema si porrà. Gli ucraini, fra coraggio e sofferenze, stanno pagando un prezzo umano indicibile in nome della libertà e della propria sovranità. Noi sappiamo che pace e giustizia si tengono in una reciproca relazione, e che non ci può essere l’una senza l’altra, intendendo per giustizia la responsabilità del crimine di aggressione. Se le opinioni pubbliche sono attraversate da emozioni fluide, a chi regge le democrazie si richiedono razionalità e nervi saldi.

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