L’urgenza degli appelli dopo 11 mesi di guerra

Esteri. Ben 50 ministri della Difesa si sono riuniti ancora una volta a Ramstein, la base americana in terra tedesca, per farsi ripetere dal primus inter pares Lloyd Austin, capo del Pentagono, che bisogna armare l’Ucraina. Austin è arrivato con un buon esempio: il nuovo pacchetto da 2,5 miliardi che gli Usa hanno deciso di stanziare allo scopo.

In Germania, però, ha trovato divisioni e polemiche. La questione di cui si discute è quella dei carri armati tedeschi Leopard, i migliori di produzione europea. L’Ucraina ne vorrebbe almeno 300 e non mancano i Paesi disposti ad accontentarla. Alla vigilia di Ramstein è stato firmato il cosiddetto Patto di Tallinn: nella capitale estone nove Paesi (Regno Unito, Estonia, Slovacchia, Polonia, Lettonia, Lituania, Danimarca, Repubblica Ceca e Olanda) hanno promesso «una donazione senza precedenti» fatta di «carri armati, artiglieria pesante, difesa aerea, munizioni». Nessuno però aveva fatto bene i conti con la Germania. Fin qui chiaramente scontenta degli eventi (in Europa è di certo il Paese più colpito dalla guerra) ma remissiva, di colpo ha puntato i piedi. Lei produce i Leopard e lei deve dare il permesso per riesportarli. E non ha intenzione di farlo. Prima ha chiesto agli Usa di fornire i loro carri Abrams (e gli Usa dicono no, paradossalmente, perché la manutenzione sarebbe troppo complicata per gli ucraini), poi non ha detto più nulla e i Leopard non sono partiti.

Sono le solite vecchie divisioni tra i Paesi oggi dominanti in Europa, quelli che vogliono approfittare dell’invasione e del coraggio degli ucraini per infliggere alla Russia una sconfitta epocale (vedi gruppo di Tallinn) e fanno la voce grossa, appoggiati dagli Usa, e quelli come la Germania o la silente Francia, che vorrebbero veder finire la guerra. La cosa davvero nuova in arrivo da Ramstein, invece, è il senso di urgenza che ha permeato l’incontro e le dichiarazioni di tutti i protagonisti, a partire dall’appello lanciato a distanza dal presidente ucraino Zelensky. Non è difficile capire perché. Dopo undici mesi di guerra (primo punto: nessuno pensava durasse tanto, e durerà ancora molto) le sanzioni non hanno fatto crollare l’economia russa (secondo) e il suo sistema militar-industriale, con l’aiuto di fornitori esterni come Corea del Nord e Iran, sembra tuttora in grado di sostenere lo sforzo bellico (terzo). Le auspicate fratture nel sistema di potere putiniano non si sono aperte (quarto) e le malattie di Putin, fino a prova contraria, sono chiacchiere. Infine, dopo i successi di fine estate-primo autunno, gli ucraini sono di nuovo sulla difensiva. Tanto che gli Usa ora quasi li invitano, con la promessa di armi adatte allo scopo, a tentare la riconquista della Crimea, per aprire un nuovo fronte.

Si rafforza quindi un sospetto. Invadere l’Ucraina è stato di certo un atto folle. Ma non meno folle pare proseguire senza alcuna chiara prospettiva (come finirà? Quando? Con quali costi umani e materiali?) una guerra che negli undici mesi finora passati non ha fatto che diventare sempre più feroce, crudele, e distruttiva. E che prospetta solo ulteriori inasprimenti, come dimostrato dalle dichiarazioni delle due parti e, soprattutto, dalle loro azioni. La Russia ha richiamato 300mila uomini e ha intrapreso la sistematica distruzione delle infrastrutture ucraine. Nelle città ucraine, invece, sono sempre più fitte le pattuglie che distribuiscono la chiamata alle armi e gli amici polacchi propongono di mobilitare i circa 2 milioni di ucraini che si sono rifugiati nel loro Paese. Non c’è vittoria per nessuno, in questa guerra. Lo capiranno (e chi l’ha già capito e ci specula, lo accetterà) quando sarà tardi.

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