L'Editoriale
Venerdì 04 Febbraio 2022
Medioriente, sangue
e diplomazia
Due giorni fa, nella zona di Atme, nel Nord della provincia siriana di Idlib, un commando degli Usa ha attaccato il nascondiglio di Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qureishi, il capo dell’Isis, che si è fatto saltare per evitare la cattura o la morte per mano del nemico. Due dati devono essere considerati. L’attacco è stato portato, come si dice, con gli scarponi sul terreno. Non con i droni manovrati a distanza, come di solito avveniva, ma con una vera incursione di veri soldati. L’altro dato significativo è che Al-Qureishi è morto nella stessa zona dove fu eliminato il famoso Al Baghdadi, il primo califfo dell’autoproclamato Stato islamico. Era il 27 ottobre del 2019. In altre parole: tra le incursioni contro i vertici dell’Isis sono passati due anni e per la seconda si è scelto di dare una dimostrazione di forza e di controllo del territorio, visto che il commando Usa sembra aver fatto ritorno alla base senza perdite. Tutto questo vuol dire una cosa sola: il terrorismo islamista è in crisi e ormai, più che a minacciare, pensa a sopravvivere. Intendiamoci: le cronache riportano ancora le imprese sanguinose dei fanatici del jihad.
Per restare in Siria, nel solo mese di novembre 2021 il Centro informazioni del Rojava (l’entità autonoma creata dai curdi nel Nord-Est del Paese) ha censito 19 attacchi contro i civili. Poco dopo 11 soldati iracheni sono stati uccisi in un’incursione partita dal deserto siriano. E a Hassaka i militanti dell’Isis hanno tentato una fuga in massa dal carcere locale, scatenando una battaglia durata giorni.
Ma un conto è estorcere denaro a pastori indifesi o a piccoli delinquenti che estraggono illegalmente petrolio, o colpire a tradimento un pullman di reclute. Un altro minacciare Stati ed eserciti, o diffondere il terrorismo in Europa come succedeva anche solo pochi anni fa: 24 attentati nella Ue nel 2018, 21 nel 2019, 10 nel 2020.
Le ragioni di questa ritirata sono molteplici. La reazione degli Stati, per cominciare. In Siria il regime di Assad ha ripreso il controllo di quasi tutto il territorio e nel Paese devastato, con l’aiuto della Russia, non è solo gendarme ma anche distributore quasi unico di risorse.
Sempre in Siria, la Turchia esercita, per interesse politico, una funzione moderatrice sui gruppi islamisti che controllano Idlib, e la presenza armata americana fa il resto.
In Iraq la situazione è molto migliorata, in Egitto il pugno di ferro dell’ex generale Al Sisi (nel Sinai aiutato anche dagli israeliani) si è fatto sentire, come ben sappiamo anche noi italiani.
In Afghanistan si temeva una riedizione degli anni Novanta, quando il Paese divenne la base prediletta di Osama bin-Laden. Ma gli studenti islamici hanno, oggi, ben altri problemi. Anzi, si trovano a combattere il terrorismo della branca afghana dell’Isis.
E poi c’è la condizione generale del Medio Oriente. L’Iran è sulla difensiva da quando deve trattare con gli Usa per recuperare il trattato sul nucleare del 2015 e liberarsi delle sanzioni.
I Paesi del Golfo Persico stringono sempre più i rapporti con Israele e mettono la sordina alle relazioni con gli islamisti, che un tempo finanziavano con generosità. La morsa di Egitto, Turchia e Russia sulla Libia blocca arrivi pericolosi dal Maghreb e dall’Africa sub-sahariana.
L’Europa è meno ingenua. I tempi cambiano, insomma. Qualche volta, e sotto qualche aspetto, anche in meglio.
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