Nato, i nodi da sciogliere e il passo di Erdogan

ESTERI. La prima cosa da notare, del vertice Nato che si apre a Vilnius, è proprio Vilnius. La capitale della Lituania, tra le 31 possibili sedi (tanti sono i Paesi della Nato), è stata scelta non a caso.

A Vilnius, nel gennaio del 1991, scoppiò il primo tentativo secessionista della fase agonica dell’Urss, allora guidata da Mikhail Gorbaciov, con 14 morti. E poi la Lituania è stretta tra la Bielorussia e l’exclave russa di Kaliningrad, per la Nato ritrovarsi lì è anche una dimostrazione di forza. Questo è infatti il punto di partenza del summit, che servirà a trasmettere l’immagine di un’alleanza militare che ad alcuni, non molto tempo fa, pareva un ingombro («La Nato è in stato di morte cerebrale», Emmanuel Macron, 2019) e che schierandosi con l’Ucraina ha riguadagnato in ogni settore: l’Europa riarma come non faceva dal 1945, due Paesi a lungo neutrali hanno deciso di aderire (Finlandia e Svezia), i Paesi Nato-scettici (la Francia ma anche la Germania) sono rientrati nei ranghi, l’ambizione globale dell’alleanza è stata rilanciata (aprirà una sede anche in Giappone) e il suo ruolo di attore della politica internazionale amplificato. In più, ciliegina sulla torta di Vilnius, è sparito l’ostacolo che per mesi la Turchia di Erdogan aveva posto sulla strada dell’ingresso della Svezia. Era ciò per cui il segretario generale della Nato Stoltenberg aveva molto lavorato, convocando Erdogan e il premier svedese Kristersson a colloquio proprio prima del summit. Missione compiuta, quindi. Aspettiamo ora di capire che cosa Erdogan, che non fa nulla gratis, abbia davvero ottenuto in cambio. E anche quanto ampio sia il distacco che sta mettendo tra la Turchia e la Russia: dopo la liberazione degli ufficiali del Battaglione Azov, riportati in patria da Zelens’kyj che li ha chiamati «eroi», la mano tesa alla Svezia. Al Cremlino non saranno contenti.

Vero è, però, che qualche punto critico rimane. A cominciare dallo stesso Stoltenberg. Il suo incarico presso la Nato è stato appena prolungato di un anno. Segno di apprezzamento ma anche di incertezza. Con la guerra in corso, la carica di segretario generale potrebbe essere pretesa dai Paesi che più intransigenza hanno mostrato verso la Russia: i tre Baltici, la Polonia, il Regno Unito. Avrebbe una certa logica ma sarebbe anche saggio? Il rinnovo di Stoltenberg, un duro che sa mediare, nasce dalla volontà di evitare un dibattito divisivo all’interno della Nato. Ed è chiaro che, se questa ipotesi ha fondamento, l’anno in più indica forse anche l’orizzonte temporale entro cui l’alleanza occidentale immagina l’ulteriore durata della guerra in Ucraina. A guerra finita o sospesa, scegliere un nuovo segretario generale sarà meno complicato.

Terzo punto, quello centrale: l’Ucraina. Zelens’kyj e i suoi chiedono da molto tempo alla Nato «un atto di coraggio», ovvero porte aperte subito all’adesione di Kiev. Nello stesso tempo sono condizionati dall’alleanza che, di fatto, con Usa e Regno Unito, è il pilastro che, con le forniture militari, tiene in piedi la resistenza degli ucraini. Sarà un caso ma l’offensiva estiva è partita dopo che Stoltenberg aveva annunciato che a Kiev era stato consegnato il 96% delle armi richieste. Come dire: ora tocca a voi.

Si era capito già settimane fa che il sospirato (dagli ucraini) via libera (della Nato) non arriverà da Vilnius. L’aveva detto il presidente Usa Biden, l’avevano detto i tedeschi, l’aveva fatto capire l’ostinato silenzio di quasi tutte le altre capitali Nato. Facile immaginare perché: il famoso articolo 5 dello statuto Nato dice che i Paesi membri «concordano che un attacco armato contro una o più di esse, in Europa o in Nord America, sarà considerato un attacco contro tutte» e che a questo si può reagire anche con gli strumenti bellici. Fornire armi e munizioni ai combattenti ucraini è una cosa, prender parte a una guerra contro la Russia tutt’altro, e non sono molti i Paesi Nato desiderosi di affrontare questa prospettiva.

Sono cose che Zelens’kyj sa bene, quindi è difficile valutare il grado della sua delusione. A Vilnius troveranno modo di consolarlo: con una promessa di aiuto militare a lungo termine, non condizionata dalla guerra; con un impegno a far da garanti della sicurezza di Kiev da parte di nazioni come Usa e Regno Unito; con un rapporto speciale tra Nato e Ucraina; e con l’annuncio di un futuro ma pronto ingresso quando la pace sarà tornata. Non è molto più di ciò che Zelens’kyj già ha, ma è la politica e il presidente-attore diventato presidente-guerriero lo sa.

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