Pace e guerra, Stati civili a uno snodo cruciale

Non si fa che parlare di pace. Non c’è altra aspirazione più condivisa ma al contempo nulla è più divisivo del modo di conquistarla.

La violenza è un elemento stabilmente presente nella vita degli uomini, in quella dei singoli come delle comunità. Si è riusciti a debellarla (anche se non del tutto) all’interno delle nazioni con la creazione dello Stato moderno. Questo, accaparrandosene il monopolio, l’ha resa impraticabile ai suoi cittadini. Tuttavia, è rimasta libera di essere esercitata nella vita internazionale. Anzi, si può dire che la preparazione della guerra abbia costituito il compito primo di ogni statista. Lo esercitò uno che di guerre se ne intendeva, il cancelliere tedesco Otto von Bismark che ebbe a dire apertis verbis: «Le grandi potenze della nostra epoca sono come dei viaggiatori che non si conoscono e che il caso ha fatto capitare insieme in un vagone. Si osservano l’un l’altro, e quando uno di essi mette una mano in tasca, il suo vicino prepara la propria rivoltella in modo da poter sparare per primo».

Per lo Stato ottocentesco il cittadino doveva diventare soldato. Se ne sono viste le conseguenze

Per lo Stato ottocentesco il cittadino doveva diventare soldato. Se ne sono viste le conseguenze. In un crescendo pauroso, si è arrivati alle due guerre mondiali: il più grande massacro di uomini nella storia dell’umanità. Stati sempre più votati alla guerra non hanno sempre visto l’opinione pubblica a conformarsi automaticamente all’orientamento militarista dominante. Anzi, tanto più sono risuonati gli squilli di guerra, tanto più si sono elevati i richiami dell’opinione pubblica alla necessità di salvaguardare la pace. I vertici militari e politici sono stati costretti a tenerne conto. Persino lo zar Nicola II si sentì in dovere di prenderne atto: «La conservazione di una pace generale e la possibile riduzione degli eccessivi armamenti che oggi gravano su ogni nazione sono ideali che ogni governo dovrebbe sforzarsi di perseguire». Ne seguì una conferenza internazionale di pace, tenutasi all’Aia nel maggio del 1899, alla presenza di ben 130 rappresentanti. Tutto inutile. L’Europa stava già correndo a briglia sciolta verso il baratro della guerra mondiale.

Se gli Stati vivevano prima di entusiasmo nazionale e di passione patriottica, ora si nutrono della preoccupazione di assicurare ai loro cittadini soprattutto diritti civili e servizi sociali

È stata la lezione tragica del secondo conflitto mondiale a mutare l’orientamento degli Stati sulla guerra. Si pensi anche solo al dato semantico che contraddistingue i monumenti ai caduti, posteriori al 1945. Sono testimonianze non più di una memoria eroica, come nel primo dopoguerra, ma dolenti vestigia di un esercito di vittime. La stragrande maggioranza della popolazione europea ha cominciato a considerare la violenza, sia interna sia internazionale, come qualcosa da temere, non più da applaudire. La guerra non è più apparsa la locomotiva della storia. È maturata una nuova idea di nazione. Se gli Stati vivevano prima di entusiasmo nazionale e di passione patriottica, ora si nutrono della preoccupazione di assicurare ai loro cittadini soprattutto diritti civili e servizi sociali. Considerano prioritario gestire la moneta, promuovere la crescita economica, garantire assistenza, proteggere le persone dalle incertezze della vita. L’eclissi della volontà e della capacità di usare la violenza, un tempo elementi fondamentali dell’arte di governo, ha creato in Europa un nuovo tipo di Stato, radicando nuove forme d’identità pubbliche e private.

Il Vecchio Continente è assurto a modello per molti Stati situati alla sua periferia. Non si capirebbe altrimenti l’attrazione magnetica che esercita nei confronti delle nazioni dell’ex impero sovietico

Questa espansione pacifica del potere soft dell’Europa ha creato un contesto di benessere e di stabilità. Il Vecchio Continente è assurto a modello per molti Stati situati alla sua periferia. Non si capirebbe altrimenti l’attrazione magnetica che esercita nei confronti delle nazioni dell’ex impero sovietico. Condizione necessaria perché questo nuovo tipo di «Stato civile» possa prosperare e svilupparsi è conservare la pace ai suoi confini. È ovvio quindi che la guerra in atto in Ucraina non sia solo una minaccia economica e militare alla pace del continente. Rischia, altresì, di mettere in discussione il futuro di quella che potremmo chiamare la conquista maggiore di questo secolo: la convivenza pacifica. Lo Stato civile è oggi giunto a un passaggio cruciale della sua storia: riconsiderare la guerra come una possibile eventualità.

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