Quell’Italia nevrotica benevola con Putin. Ma i consensi non pagano

C’è un rapporto stridente fra l’offensiva diplomatica di Draghi, per arrivare a un cessate il fuoco in Ucraina e il clima filo-putiniano in sacche non marginali d’Italia trainato dai social e da qualche talk show. Chi esplicito, chi a mezza voce, chi infine equidistante, comunque un orientamento comprensivo se non indulgente delle responsabilità dell’autocrate di Mosca. Salvini e Conte, i più assidui, che si fanno reciprocamente da spalla, poi il Berlusconi del discorso di Treviglio, pezzi della sinistra radicale e del mondo accademico, dimentichi dell’ultimo Berlinguer, che si sentiva più tranquillo sotto l’ombrello Nato.

Infine l’improbabile accoppiata Salvini-De Luca, governatore della Campania. Siamo gli unici in Europa e qualche osservatore ha parlato di un Paese ingessato nelle sue nevrosi, che non sono di oggi. Si paga il prezzo di una classe dirigente che per lungo tempo ha montato la guardia al bidone illiberale, alla pretesa efficienza sbrigativa dei regimi ibridi, con lo sguardo benevolo ai Putin di turno. Ripeti, ripeti, qualcosa resterà, e così nell’opinione pubblica s’è aperto e diffuso un «sentiment» alternativo.

Non aiuta l’assenza di sbocchi praticabili sul piano negoziale, mentre l’armata di Putin avanza lentamente nel Donbass, ma avanza. Lo zar ha risposto picche al premier italiano, l’Ucraina - in un momento così difficile sul terreno - ribadisce non negoziabile la propria integrità territoriale e intende mostrare a Putin più forza militare per farlo trattare. Molto impegno, purtroppo risultati non visibili. Si dubita seriamente ci riesca Salvini che, dopo essersi detto pronto ad andare a Mosca, ha tirato il freno in un ritrovato realismo. Una diplomazia parallela, la sua, già reduce dalla non memorabile trasferta polacca, che rischia di essere un azzardo velleitario oltre che un inelegante sgarbo istituzionale verso il governo. Si misurerebbe con qualcosa di più grande di lui, quella dimensione propria di pesi massimi come Macron e Scholz, ai quali proprio ieri Putin ha aperto al dialogo sull’emergenza grano. Lo stesso Draghi, per quanto il nome sia una garanzia, sta verificando la complessità della geopolitica, la politica tout court. Un tempo i responsabili della Farnesina erano attori in grado di innescare progetti strategici. Del piano italiano per una soluzione negoziata si sono perse le tracce: in realtà un primo contributo per delineare comunque un perimetro di massima, fin qui respinto da Mosca e accolto senza particolari entusiasmi da Ucraina.

Aver diffuso il dossier preparato dall’Italia implica la necessità di portare a casa qualche esito, finora non pervenuto. In Italia la tempesta perfetta (guerra, pandemia, inflazione) incrocia il Vietnam in casa del centrodestra e dei post grillini. Gli attacchi a Draghi, legati alla cucina elettorale, seguono un rituale collaudato: intesa, smarcamento, contestazione, ricontrattazione, sapendo che non è conveniente per loro oltrepassare la linea rossa dello strappo definitivo. Per i grillini, significherebbe quasi sicuramente una scissione soprattutto per i parlamentari al secondo mandato e per quelli già certi di non essere riletti. Ma soprattutto colpire contromano si sta rivelando un boomerang elettorale per Lega e M5S, rotolati mai così in basso da inizio legislatura: rispettivamente al 15,1% e al 13,7% secondo il sondaggio Ipsos. La stagione dei fasti populisti 2018-2019 ha chiuso i battenti. Le pericolose affinità elettive non si traducono in consensi e i vecchi cavalli di battaglia (reddito di cittadinanza per i 5 Stelle, immigrazione per la Lega) non garantiscono più una rendita elettorale cospicua.

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