Se la privacy
dei singoli
fa a pugni
con la salute

Contemporaneamente al via libera al passaporto vaccinale l’Authority per la privacy ha bacchettato l’app digitale «Io», società interamente partecipata dal ministero delle Finanze, poiché alcuni dati degli utenti vengono trasferiti al di fuori dell’Unione europea, ad esempio in India, in Australia o negli Stati Uniti. L’app «Io» aveva un grande futuro dietro le spalle.

Doveva diventare il portale unico di accesso ai servizi della Pubblica amministrazione, ma soprattutto doveva collaborare a gestire l’emergenza Covid. Purtroppo le «criticità» del Garante l’hanno bloccata sulla pista di decollo.

L’utilità delle applicazioni digitali nella lotta alla diffusione del contagio (per esempio attraverso l’individuazione dei «cluster», le aree di diffusione del morbo) e nella gestione del dopo-pandemia, attraverso la messa in sicurezza dei luoghi pubblici (controlli sugli autobus, nei treni o alle stazioni del metrò, «screening» nei ristoranti, nei bar, nei musei etc.) è ormai una realtà. Certo, esiste il rischio di violazione della privacy attraverso la geolocalizzazione o il trattamento dei dati personali.

Ma fin dove arriva la protezione della privacy e la tutela della salute pubblica in tempi di Covid? A nessuno piace che i nostri dati personali vengano visti o gestiti da qualcun altro, compreso lo Stato, ma se questa «intrusione» serve a salvare e tutelare la nostra vita e quella degli altri non è un «sacrificio» sopportabile? Per non parlare di esigenze collettive meno stringenti come il Covid ma non per questo irrilevanti, come la lotta all’evasione fiscale. Se non si possono conoscere i dati degli evasori come possiamo rintracciarli e costringerli a pagare le tasse?

La pandemia ha messo in discussione molte certezze e molte abitudini. Il diritto non sfugge a questa rivoluzione. Nell’eterno contrasto tra libertà individuali ed esigenze collettive la tutela della vita e della salute sono una priorità assoluta. Se le limitazioni della nostra libertà sono il prezzo da pagare per rimanere in vita allora è un costo sostenibile. Se sto camminando su un sentiero di montagna e in caso di incidente posso essere localizzato e salvato dall’elisoccorso non mi interessa che qualcun altro abbia accesso ai miei dati e alla mia posizione, anche se non ho dato il consenso.

Questa strana guerra dell’Authority agli algoritmi digitali, che spesso rischia di lasciarci in balia della pandemia, comincia a suscitare molti malumori, anche se il garante continua a sostenere che le due esigenze (tutela della privacy e salute pubblica) non sono in disaccordo e possono convivere in armonia. Sarà, ma il problema esiste e c’è chi si spinge a parlare di «oscurantismo» e di «religione della privacy», di una Repubblica che corre il rischio opposto a quello del «totalitarismo», tipico dei Paesi autocratici come la Corea del Nord o postcomunisti come la Cina. Quello che potremmo chiamare se vogliamo, «privatismo», malattia patologica degli Stati democratici e liberali. Tornando alla nostra Autorità governativa, un esempio eclatante è stato il divieto di verificare in ambito aziendale chi si vaccina e chi no.

Pensiamo a una Rsa o una clinica, ma anche una scuola, e comunque qualsiasi impresa in cui i dipendenti lavorano fianco a fianco: se il datore di lavoro non sa chi si è vaccinato e chi no come può gestire in sicurezza un servizio diretto a pazienti e anziani? Come può proteggere adeguatamente il suo personale da un’eventuale diffusione del contagio? Finora l’Authority sembra non aver alcuna intenzione di fare eccezioni alla sua linea rigorista. Forse una risposta ai rischi di un eccessivo «privatismo», con tutti i rischi che ne derivano, potrebbe darla il Parlamento.

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