«Terre rare»
e geopolitica

È il «silicio» - da cui non a caso prende nome la Silicon Valley californiana - il simbolo principale della rivoluzione tecnologica che ha irreversibilmente stravolto le nostre abitudini di lavoro e di vita. Si tratta di un metallo semiconduttore la cui presenza è indispensabile nei circuiti integrati e nella componentistica elettronica. Accanto ad esso vi sono elementi chimici meno noti e tuttavia sempre più importanti che si nascondono in ogni nostro dispositivo: smartphone, computer, televisori, automobili, elettrodomestici. Alcuni di questi fanno parte delle cosiddette «terre rare», dalle quali vengono estratti 17 elementi metallici utilizzati dall’industria dell’alta tecnologia per l’industria aerospaziale (scandio), per la realizzazione di schermi a cristalli liquidi (europio), per il laser (ittrio, samario, terbio), per le batterie di ultima generazione (lantanio, promezio) ecc.

A dispetto del loro nome, le «terre rare» sono relativamente abbondanti nella crosta terrestre. Sono state chiamate così perché i minerali in esse contenuti sono combinati con altri elementi dai quali è molto difficile «tirare fuori» i singoli componenti. I complessi procedimenti per la loro estrazione hanno un forte impatto ambientale, perché prevedono grandi quantità di acqua per eseguire filtraggi e l’utilizzo di sostanze chimiche altamente inquinanti e velenose per chi le maneggia.

La produzione ed il commercio mondiale delle terre rare ha importanti risvolti geopolitici perché i metalli in esse contenuti sono ormai al centro della competizione internazionale. Allo stato attuale oltre il 95% delle «terre rare» estratte nel mondo e il 70% delle riserve mondiali fino ad oggi scoperte si trovano in Cina. Qui, il governo da un lato impone drastiche restrizioni alle esportazioni, e dall’altro rifornisce costantemente le proprie industrie elettroniche per favorirne il massimo sviluppo. Lo scorso anno l’Organizzazione mondiale per il commercio (Wto) ha richiamato la Cina, in realtà senza alcun risultato, individuando nei suoi comportamenti un «abuso di posizione dominante e un ostacolo alla libera circolazione delle merci». In presenza di questa situazione molti colossi dell’informatica e dell’elettronica, tra cui anche Apple, hanno deciso di produrre i propri apparecchi in Cina, affidando la produzione a industrie specializzate locali.

Nel frattempo, però, si stanno moltiplicando iniziative da parte di multinazionali e governi per produrre «terre rare» in altri luoghi del pianeta. Apertura di nuove miniere sono in corso in Norvegia, setacciando vaste aree dei mari del Nord, così come in Russia, Brasile, Australia e negli Stati Uniti. Appare tuttavia piuttosto difficile che soprattutto i Paesi guidati da regimi sociopolitici ben diversi da quello del dragone possano sobbarcarsi i costi sociali e ambientali necessari per l’estrazione massiccia nei propri territori di «terre rare». In merito, il giornalista francese Guillaume Pitron, che ha vissuto alcuni anni in Cina, nel libro «La guerra dei metalli rari» (University Press, 2019) ha, tra l’altro, scritto: «La dirompente ascesa della Cina è in buona parte dipesa dallo sfruttamento, spesso incondizionato, delle circa 10.000 miniere presenti nel Paese per l’estrazione dei metalli rari, con costi ambientali e sanitari spaventosi. Questo perché il processo di raffinazione di tali metalli richiede l’utilizzo di sostanze chimiche, reagenti e ingenti quantità di acqua, con conseguente inquinamento del suolo, dei corsi d’acqua e dell’ambiente circostante». La regione cinese della Mongolia, dove si trovano le più grandi miniere di «terre rare», è descritta da Pitron come «un inferno in terra». Si stima che la lavorazione di una tonnellata di metalli delle terre rare produca circa 2.000 tonnellate di rifiuti tossici. Come ogni rivoluzione degna di tale nome, anche quella tecnologica presenta indubbi vantaggi e altrettante criticità assolutamente da non sottovalutare. A cominciare dalla necessità, sempre più impellente, di studiare metodologie avveniristiche che consentano il riciclo dei componenti elettronici obsoleti – la cosiddetta «spazzatura elettronica» – anch’essi terribilmente fonte d’inquinamento.

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