La Fondazione Dalmine: «L’identità è la nostra forza»

UN GIORNO SPECIALE. L’inaugurazione della nuova sede nell’ex foresteria. Paolo Rocca: l’industria è la soluzione anche alle questioni energetiche.

L’emozione di un giorno speciale, il senso di una missione compiuta, la rivendicazione della leadership dell’industria nell’economia italiana. Sono questi i sentimenti e le parole con i quali è stata inaugurata, giovedì pomeriggio (18 aprile), la nuova sede della Fondazione Dalmine nell’ex foresteria.

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Un colpo d’occhio sull’eccellenza, un luogo pensato per accettare le sfide del cambiamento, continuando e rinnovando un processo centenario vissuto proprio in questi stessi spazi, ristrutturati rispettandone le caratteristiche: ieri nel ‘900, il secolo breve, ora in un Duemila immerso nell’età dell’incertezza. La soddisfazione di una conquista, la consapevolezza di una responsabilità in più per un Gruppo globale e una comunità. Ecco dunque che la parola chiave è identità, ripetuta più volte da Paolo Rocca, presidente e ceo di Tenaris, intervenuto con il fratello Gianfelice, presidente di Techint. Numerosi gli invitati in questa «nostra nuova casa»: autorità, uomini d’impresa e accademici, insieme con l’assessore regionale Claudia Terzi, il presidente della Provincia Pasquale Gandolfi, il sindaco di Bergamo Giorgio Gori, la presidente di Confindustria Giovanna Ricuperati.

Carolina Lussana, vicepresidente della Fondazione, e il direttore Manuel Tonolini, hanno illustrato il ruolo dell’Archivio storico, ora digitalizzato: memoria, radici, grandi e piccole storie di persone, industria e comunità, ponte fra le generazioni per trasmettere conoscenze e valori. L’Education è in cima all’agenda, perché qui – fra sala immersiva, robot e aule – gli studenti avranno gli spazi e gli strumenti, più di prima, di avvicinarsi alle nuove tecnologie. La Fondazione, nel segno di una continuità che abbraccia il futuro, rilancia così i suoi tre pilastri: education, attività culturali, identità. Questo edificio, realizzato dall’architetto Giovanni Greppi, viene da lontano e nell’attraversare le tragedie del secolo scorso ha dato forma e vita ad un preciso messaggio, come ha spiegato Paolo Rocca: la capacità dell’industria di trasformare non solo se stessa ma la comunità con la quale condivide l’esistenza e l’incedere storico, in un processo d’integrazione: «L’identità del nostro Gruppo è ciò che ci tiene insieme». Un intervento, quello del presidente Tenaris, giocato molto sui valori della cultura industriale manufatturiera. Forza innovativa e risorse imprenditoriali al servizio di una prassi razionale: visione oggettiva, analisi della realtà, decisione. Sguardo lungo e concretezza, insomma, e questo è stato l’aggancio per parlare di Europa e mondo globale. Nell’analisi comparativa, Paolo Rocca osserva i risultati straordinari del Vecchio continente negli anni ’90 e per contro lo spaesamento attuale. Un deficit prima di tutto: «Sento la mancanza di leadership. Non guidare vuol dire perdere. Gli Stati Uniti, nel bene e nel male, decidono».

Parla di errori gravi, di previsioni deboli. Eccoci così alla Cina: l’ingresso aggressivo sui mercati, un posizionamento energetico straordinario, un livello egemonico (rappresenta il 30% della manifattura globale contro il 4% di 20 anni fa), anche perché Europa e America hanno ceduto pezzi delle catene di valore. «Ripiegando – avverte – l’Europa perde la volontà di comando». E poi la questione energetica affrontata in maniera non pragmatica e non graduale, ma con una «visione quasi religiosa e millenarista». Il presidente analizza gli choc internazionali conversando con l’amico Antonio Gozzi, che proprio ieri è entrato nella squadra del nuovo vertice di Confindustria quale Special Advisor con delega all’Autonomia strategica europea, Piano Mattei e Competitività. L’uomo giusto al posto giusto visto che ha lavorato a Bruxelles per 15 anni, quindi anche con le necessarie competenze critiche molto esplicite: «Nel giudizio sulle politiche europee degli ultimi 20 anni sono abbastanza radicale dal punto di vista culturale. Ora, però, mi sono preso la soddisfazione di vedere Draghi, il quale su questi temi ha detto che occorre un cambiamento radicale». Perché culturalmente radicale, s’è chiesto? Si sconta il grande errore di aver pensato al consumo come fattore di crescita e non alla produzione: «Sui temi industriali ho visto fastidio, una certa banalità e ignoranza dei fondamentali. Siamo il mercato più grande del mondo, abbiamo avuto tassi d’interesse e costi d’energia bassi, eppure lo sviluppo è stato decisamente inferiore agli Usa. Ci sarà qualcosa che non ha funzionato. Non c’è una sola grande impresa europea fra le prime 10 al mondo. Il fatto è che l’industria non è il problema, come si è cercato di far credere a Bruxelles, ma la soluzione anche rispetto alla questione energetica».

In un quadro in cui la Germania, avendo perso il proprio business, si trova «in uno stato di confusione mentale», sono tre le distorsioni cognitive alla base di una crisi dominata dal fattore culturale: estremismo ambientalista «diventata una religione neopagana», mercatismo globalista estremo e analoga finanziarizzazione. «Sulla transizione green – chiarisce – l’Europa è debole con i forti (Francia e Germania) e forte con i deboli (Italia). Tra i grandi Paesi, nonostante la retorica europeista, ci sono interessi nazionali forti e in conflitto. Noi ci stiamo attrezzando per la transizione energetica, ma siamo completamente soli: gli altri Stati danno miliardi e miliardi alle loro industrie, cosa che l’Italia non può fare con il debito che ha». L’Italia conserva però una carta, solo quella, da giocare: la forza poderosa dell’industria manufatturiera (1.200 miliardi di fatturato, dei quali 670 in export). «Il tema – riassume anche come prospettiva confindustriale – è l’interazione che spero avremo con Draghi dopo che avrà presentato il suo rapporto sulla competitività. Cercheremo di valorizzare l’importanza della nostra manifattura, uno dei sistemi più performanti in Italia e in Europa. Lo dico senza presunzione: la nostra industria è studiata e apprezzata ovunque e quindi venite, per una volta, da noi per capire cosa c’è dietro questo fenomeno. Invece di prendere sempre lezioni dall’Europa, stavolta potremmo essere noi a impartirle». Questo giudizio, espresso a Bergamo (che con Brescia è ai primi posti nella manifattura europea), deve aver colto un sentire comune.

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