< Home

Quale social per lanciare il nostro brand? Ecco la strategia giusta

Costruire il brand di un’azienda richiede tempo, comprensione e ascolto del pubblico, utilizzo delle piattaforme social come strumento coerente con una strategia complessiva, online e offline. Ecco la guida.

Lettura 12 min.

Sommario

Introduzione
La lezione di Google+
B2B, B2C e altri acronimi per capire quali social usare
H2H
Primo (ancora una volta): conosci il tuo pubblico
Secondo: parla come il tuo pubblico
Terzo: dati gli obiettivi, converti
Quarto: misura (che poi vuol dire che sbagliando si impara)


Introduzione

All’alba del 2019, ci sono tre tendenze che vediamo svilupparsi sul digitale, a parte quelle che ci raccontano i migliori mondi possibili o i futuri distopici.

La prima: lentamente, anche le aziende più diffidenti capiscono che ci sono delle praterie inesplorate per i loro brand. Le richieste che arrivano da parte di queste aziende sono a volte estremamente consapevoli. Altre volte, invece, risentono di tutto quel che si è raccontato in questi anni a proposito del digitale come panacea di tutti i mali, come ecosistema dove si ottengono risultati enormi con poco sforzo e in poco tempo.
Un esempio? A un cliente con cui lavoro è arrivata la richiesta di una campagna su Facebook “con un basso costo per contatto raggiunto. Il loro obiettivo è quello di voler aumentare le registrazioni e i visitatori alla fiera, piuttosto che fare una campagna incentrata sulla brand awareness”. La richiesta arriva da un’azienda che lavora con clienti cosiddetti “B2B” (business to business, o commercio interaziendale) e che non ha mai fatto attività su Facebook.

La seconda: proprio in virtù dell’aumento della domanda, esplodono le inserzioni di aziende e privati che ti promettono “ricette per la lead generation”, “monetizzazione garantita”, “cambiare mindset e comprendere il valore dei dati nel tuo business”, addirittura abbonamenti a servizi che ti garantiscono di prendersi cura della vita digitale della tua azienda senza che tu debba mai pensarci.
In poche parole, anche il digital marketing sta diventando una commodity. Come tutti i mercati in cui un prodotto si trasforma in una commodity, anche qui succederà, prima o poi, che emergeranno le eccellenze.

E infatti c’è la terza tendenza: poche aziende che comprendono il valore del lavoro di costruzione del brand, comprensione e ascolto del pubblico, utilizzo delle piattaforme social come strumento coerente con una strategia complessiva (online e offline) si rivolgono a pochi professionisti che, come prima cosa, sanno che per ottenere risultati ci vuole tempo. Che gli obiettivi si devono spalmare su scala temporale. Che si può misurare tutto ma prima di ogni altra cosa contano la strategia, il metodo e le tecniche.

Con Skille, nel percorso sulla comunicazione e sul marketing digitale, cerchiamo di imboccare insieme a te questa terza via. Scappiamo dalle “sbornie” e dalle passioni per una piattaforma o per l’ennesima formula magica e cerchiamo, piuttosto, di individuare percorsi che possono aiutare un’azienda a comunicare e a fare marketing indipendentemente dalle piattaforme, pronta a affrontare qualsiasi cambiamento si prospetti nello scenario digitale.

Perché, prima di tutto, bisogna rendersi indipendenti dalle piattaforme nel modo di pensare prima ancora che nell’azione? Vediamolo con una lezione che possiamo imparare dal fallimento di un prodotto.

La grande lezione di Google Plus

Nel 2011 Google lanciò il suo servizio Google Plus. Doveva essere, negli intenti e secondo il racconto che ne venne fatto anche da magazine specializzati, una specie di innovazione straordinaria. Un po’ social un po’ chat, grosso, bello, integrato con il motore di ricerca e tante altre cose.

Sette anni dopo, a dicembre del 2018, Alphabet ha annunciato che Google Plus, il social network di Google, sarebbe stato chiuso a partire da aprile 2019.

Quello che è successo a Google+ è un ottimo esempio per spiegare:

  • come dovremmo interpretare le piattaforme e gli strumenti
  • perché non dobbiamo dipendere da piattaforme e strumenti ma usarli per averne un vantaggio
  • perché i dati massivi sono buoni solo per titoli a effetto e dobbiamo diffidare dei titoli a effetto.
 

Partiamo dall’ultima considerazione per risalire. Se si cercano dati relativi a Google Plus, si trova ancora la sua posizione nella classifica delle piattaforme social più utilizzate.
Per esempio, c’è chi dice che è la quinta piattaforma al mondo, perché avrebbe 395 milioni di persone che lo usano ogni mese e due miliardi di persone registrate al servizio. Questo nonostante già dal 2014 fosse noto e spiegato, per esempio dal New York Times, che Google Plus rimaneva, perlopiù, una specie di scatola vuota sottoutilizzata. I numeri sono veri, certo. Ma questo perché mettono insieme tutti coloro che hanno un account registrato su Google (utilizzando, ad esempio, Gmail, Youtube o altri servizi del colosso digital).

Eppure chi ha lavorato con i contenuti digitali sa bene quanta “febbre” da Google Plus ci fosse. E quanto Google abbia tentato di forzare l’uso del suo “social”. E quanto si continuasse a puntare sul social in certi ambienti nonostante fosse diventato, con ogni evidenza empirica possibile, una città digitale fantasma.

Il problema è il modo in cui sono stati generati quei numeri clamorosi. Semplicemente, dal 2012 in poi, se volevi avere un account Gmail – altro prodotto Google sul cui successo non si può dubitare, invece – dovevi anche avere un account su Google+. Era un passaggio forzato.

Un po’ come quando le aziende comprano a caso database di mail e poi cominciano a mandare mail, sempre a caso, dicendo: abbiamo un database di 100 mila potenziali clienti.

Ecco. Quando si forza non si ottiene nulla di buono.

Infatti, nonostante quei numeri clamorosi e nonostante la potenza di fuoco dell’azienda di Mountain View, i fatti sono andati in un’altra direzione.

Il 2 febbraio 2019 è arrivata una mail a tutti i possessori di un account Google Plus. La versione italiana, fra l’altro, recita così: «A dicembre 2018 abbiamo annunciato la nostra decisione di chiudere la versione consumer di Google+ ad aprile 2019 a causa del suo scarso utilizzo e delle difficoltà relative al mantenimento di un prodotto in grado di soddisfare le aspettative dei consumatori. Vogliamo ringraziarti di aver fatto parte di Google+ e fornirti indicazioni su come procedere, incluse le istruzioni su come scaricare le tue foto e altri contenuti».

Non possiamo dubitare che ci sia stato chi abbia tratto vantaggi anche da Google+, chiaramente. Ma la lezione finale della chiusura di questo servizio ci insegna che se ci facciamo ubriacare da quel che si dice in giro, se ci rendiamo dipendenti da una piattaforma senza pensare “transmediale”, senza agire “trans-piattaforma”, e soprattutto senza pensare, prima di tutto, alle persone, commettiamo un clamoroso errore strategico.

Eppure sappiamo bene quanto sia affascinante affidarsi a chi garantisce risultati immediati con poca spesa e a chi ti dice “questa è la piattaforma del futuro”.

B2B, B2C e altri acronimi per capire quali social usare

Allo stesso modo, è affascinante ascoltare chi usa termini che percepiamo come tecnici e chi farcisce i discorsi di acronimi prelevati dalla lingua inglese.
Questi acronimi, queste etichette, servono per marcare differenze, per poter dire “ehi, il mio mercato è diverso dal tuo”.

Ora: è assolutamente vero che qualsiasi metodo, per quanto ben studiato e incardinato su binari strategici e tecnici, va personalizzato. Ma è altrettanto vero che etichettare e alzare muri è molto spesso l’equivalente di una guerra di religione.

Figuriamoci, poi, se questa guerra di religione serve per darsi addosso a proposito di cosa sia meglio fare con ambienti come i social, relativamente nuovi e che in molti percepiscono come distanti dal loro modo di essere e dal loro percepito.

Ci può venire in aiuto in qualche modo il “Social media marketing industry report” curato ogni anno da Michael A. Stelzner e pubblicato da Social Media Examiner. Anche se come al solito è un’analisi che riguarda perlopiù Paesi stranieri e anglofoni, prevalentemente Usa, Australia, Regno Unito, Sudafrica, Canada e India, assumiamo che per sommi capi possa essere una buona proiezione per i prossimi anni in Italia, come spesso accade. D’altra parte questa invenzione incredibile, internet, ha abbattuto i confini nazionali.

Il documento si basa su più di 5.700 interviste condotte a responsabili marketing in giro per il mondo rispetto all’uso che fanno dei social media e ai risultati ottenuti.

Tanto per cominciare, confrontiamo i dati dell’uso dei social da parte di chi si occupa di marketing online per il B2B e di chi si occupa di marketing online per il B2C.

I social più usati per il B2C sono, nell’ordine, Facebook, Instagram, Twitter e YouTube. Cioè, social che abitualmente identifichiamo con l’intrattenimento leggero.

 

Ma allora qual è il social più usato per il B2B?

 

Sorpresa: anche se Linkedin si presenta in seconda posizione, incrementando notevolmente l’uso da parte dei marketer, è ancora Facebook a farla da padrone. E le quote di Twitter, Instagram e YouTube non sono certo insignificanti. Anzi.

In termini di importanza, poi, Facebook sta erodendo progressivamente spazio a Linkedin anche nel B2B, confrontando i dati del 2017 con quelli del 2018.

Francamente la cosa non può sorprenderci più di tanto se abbiamo i giusti anticorpi e se abbiamo capito che i social servono alle nostre aziende tanto per cominciare perché li usano le persone. E siccome anche le decisioni in azienda sono prese da persone, l’equazione è presto fatta.

È vero: per molto tempo LinkedIn ha avuto un’allure da social tecnico-professionale, soprattutto perché ci puoi mettere il tuo curriculum, puoi aggregare i curricula dei tuoi dipendenti, puoi creare una pagina aziendale e gli showcase per illustrare i diversi prodotti o eventi della tua azienda.
Nel tempo, queste funzionalità si sono consolidate ma, contemporaneamente, il flusso delle condivisioni su LinkedIn è diventato molto più simile a quello di altri social. La tematica è prevalentemente quella lavorativa, ma è tutto un poco realistico, poco credibile «ehi, guarda quanto siamo bravi», e spesso emergono foto emozionali, post che c’entrano poco col lavoro e altre cose del genere.
Se c’è una cosa che i social hanno profondamente cambiato, come abbiamo già visto, è la possibilità per un’azienda di fare un monologo. I social relazionano e le aziende devono accettare di relazionarsi, perché là fuori il loro pubblico parla di loro, sempre e comunque.

Questo non significa che non si debba più usare LinkedIn. Anzi.
Ma che nascondersi dietro la foglia di fico del B2B non è una scusa sufficiente per escludere dal novero degli strumenti piattaforme che ci appaiono come orientate all’aspetto ludico, come Facebook, Instagram e altre.

H2H

Il punto cruciale sta nel giocare a prendere un solo acronimo che ci salverà da tutti gli altri. Questo acronimo lo ha inventato Bryan Kramer ed è H2H. Vuol dire, molto semplicemente ma altrettanto significativamente Human to Human.

Anche Kramer ha la sua ricetta, ma è la più difficile di tutte

«La comunicazione non dovrebbe essere complicata», scrive, nella prefazione del suo libro “There is no B2B and B2C. H2H: Human to Human”.

La comunicazione dovrebbe essere genuina e semplice, con l’umiltà e la comprensione del fatto che siamo tutti esseri umani, che siamo multidimensionali, che ciascuno di noi passa del tempo sia nelle pieghe più oscure sia in quelle più luminose della vita. Ecco cosa vuol dire “human to human”.

Se sembra qualcosa di troppo filosofico per essere vero o attuabile in pratica, suggerisco di leggere integralmente il libro di Kramer che troviamo gratuitamente sul suo sito. E poi, naturalmente, propongo alcune prassi da seguire.

Primo (ancora una volta): ascolta e conosci il tuo pubblico

A costo di essere noiosi, qualsiasi strategia di comunicazione o marketing rivolta al pubblico deve, prima di tutto, conoscerlo.
E conoscerlo vuol dire – ultimamente mi sono reso conto che questa è la chiave principale – rispondere, essenzialmente, alle 5W (who-what-where-when-why), orientando le domande a livello conoscitivo delle persone là fuori:

  • chi sono i tuoi clienti?
  • cosa fanno su internet?
  • su quali piattaforme li trovi?
  • quando sono connessi?
  • perché usano le piattaforme?

Cosa potresti fare per scoprirlo? Un esempio semplice che funziona è: chiedilo ai tuoi clienti. È vero, sono sommersi da sondaggi, da pdf da scaricare, non hanno tempo. Bene: inventati qualcosa che consenta di risparmiare tempo e regalagliela in cambio della risposta a queste domande. Invitali a un evento. Costruisci relazioni con loro. Se le hai già costruite, consolidale di tanto in tanto. E conoscili, falli parlare, ascoltali.

Poi costruisciti uno schema dei tuoi clienti sulla base delle personas (nello schema che abbiamo visto parlando di contenuti relazionali), individuando a questo punto non solo i loro problemi e paure, i loro bisogni e desideri: puoi arricchire questo schema con le informazioni che trovi dando una risposta alle domande lì sopra.

E se pensi ancora che per il B2B non valga, ricordati che questa è una strategia relazionale. E il B2B è molto più relazionale del B2C.

Il mondo in cui operiamo è sempre più complesso e la quantità di contenuti a cui sono esposti i nostri clienti è soverchiante. Sono “contenuti” anche gli appuntamenti, le telefonate, gli eventi: le agende delle persone che vogliamo contattare e che desideriamo avere come clienti sono piene, anche quando non ne sono consapevoli.

Si chiede ancora Kramer:

Allora, in tutto questo, cosa possiamo controllare, come marketer?

La risposta è complessa ma è qualcosa che abbiamo già all’interno delle nostre aziende: «L’approccio. La comprensione. Il messaggio. Possiamo scegliere come vogliamo interagire con i nostri impiegati, con i nostri clienti, e controllare le componenti più importanti nel contesto delle nostre interazioni.

Ecco perché è un’idea intelligente focalizzarci su quel che possiamo controllare e su quel che non possiamo. Possiamo scegliere di provare e di fallire, di imparare dai nostri errori, di utilizzare la nostra umanità per connetterci agli altri su questi livello. I comportamenti umani sono complessi in maniera innata, ma allo stesso tempo, in maniera innata tendono alla semplicità.

È la semplicità dei nostri comunicatori, brand, prodotti preferiti che ci fa innamorare di loro, perché capiamo quel che dicono: ci vuole un sacco di lavoro per rendere semplice la complessità».

E uno dei modi per farlo è semplificare il linguaggio.

Secondo: parla come il tuo pubblico

«Perché i professionisti del marketing pensano di dover parlare in maniera diversa rispetto al loro pubblico? Non saprei dirvi quante riunioni ho fatto in cui gli acronimi venivano usati così tante volte che il mio cervello doveva passare più tempo a decifrarli invece di pensare a quel che si stava cercando di fare. Gli acronimi sono importanti, ma non quando sostituiscono informazioni che bisogna comunicare a qualcuno che non capirebbe il tuo mondo pieno di lettere maiuscole».

È ancora Kramer a scriverlo, capace, con esempi vividi, di illustrare tutti gli equivoci. Ci sono aziende che ignorano il modo in cui il pubblico parla di loro sui social, gli hashtag che usa, e provano disperatamente a imporre le loro etichette; aziende che si preoccupano del fatto che i loro brand vadano scritti tutti in maiuscolo. E allora come si fa con l’hashtag? E via dicendo.

Se pensi di creare una strategia di content marketing sui social, ricordati che il contesto è tutto. E una volta che hai capito su quali piattaforme digitali si trovano i tuoi clienti, tanto per cominciare, dovrai adattarti al modo in cui i tuoi clienti usano i contenuti su quelle piattaforme (oppure non andarci per nulla).

Una volta che avrai compreso il contesto, c’è qualcosa che devi fare sempre, prima di pubblicare, prima di comunicare.

I quattro passaggi di questo step suggeriti da Kramer (e rivisitati) sono:

  • Pensaci bene. Pensa a quello che scriverai. Non importa se è su Twitter o su LinkedIn o su Facebook o sul blog aziendale o su un volantino o su un manifesto o sulla brochure per i clienti. Pensaci. Pensa a chi parli, a cosa serve quel che scriverai. E scrivilo e pubblicalo solo dopo averci pensato tanto.
  • Vai spesso all’ultima pagina. Quando pianifichi la tua strategia, dovresti sapere come comincia e anche come dovrebbe andare a finire. Se c’è un trucco da usare, è quello di partire dalla fine, cioè dagli obiettivi, e costruire tutta la strategia a ritroso.
  • Rallenta. Quante volte hai pensato che si dovesse pubblicare solo perché si deve pubblicare? Bene, non farlo più. Meno è meglio.
  • Esci da quel corpo. Se tu usi i social in un modo, non è detto che lo facciano tutti gli altri. Se tu comunichi in un certo modo, non è detto che quel modo sia comprensibile a tutti gli altri. Chiedi ai colleghi, al tuo staff, ai tuoi amici. E soprattutto, usa l’autenticità (quest’ultima raccomandazione, l’essere autentici, significa, d’altra parte, che possiamo usare tutte le tecniche di marketing e di comunicazione più efficaci, ma se abbiamo un prodotto scadente verrà fuori)

Terzo: dati gli obiettivi, converti

Questo è il momento in cui, dopo aver servito al meglio chi è già tuo cliente e dopo aver imbastito una strategia sensata sulle piattaforme social, devi puntare non solo al mantenimento dei clienti attuali ma anche alla conversione di quelli potenziali. Questa conversione passa per un imbuto, il famigerato funnel di conversione.

La migliore rappresentazione grafica di questo schema è, probabilmente, quella offerta da MOZ.

Che cosa vuol dire convertire? Significa che chi non ti conosceva ti conoscerà anche grazie ai contenuti che proponi sui social, poi magari ti lascerà i suoi dati per ricontattarlo di persona e poi, magari, diventerà tuo cliente e, se tutto sarà consono alle sue aspettative, potrà anche trasformarsi in tuo ambasciatore.

 

Ogni gradino di questo strano imbuto richiede il pieno controllo di quel che stai facendo e la consapevolezza del fatto che il tuo pubblico viene raggiunto continuamente dai contenuti dei tuoi concorrenti (tutti sono concorrenti nell’economia dell’attenzione). Quindi, ancora una volta, progettali bene, fanne meno, falli meglio possibile.

La conversione migliore in assoluto non è solo una vendita chiusa. È il diventare un punto di riferimento per il tuo pubblico.

Ecco perché tutta questa attività, in realtà, è anche, sempre, costantemente di brand awareness, di costruzione del tuo marchio. Il pubblico deve percepirti come autorevole, credibile, coerente sulle piattaforme su cui hai deciso di esporti. E questo percepito deve essere reale e autentico.

Quarto: misura (che poi vuol dire che sbagliando si impara)

Se hai definito bene il tuo pubblico, se hai introiettato la strategia e sei riuscito a farla tua, questo è il momento della resa dei conti.

Non vuol dire – come fanno molte aziende – il momento di trovare i colpevoli se qualcosa è andato male. Vuol dire, piuttosto, che ci saranno cose che hanno portato risultati positivi e altre che hanno evidenziato errori, che possono annidarsi in tutte e quattro le fasi di questo semplice schema operativo.
Ci saranno sempre, come insegna la cara vecchia legge di Pareto, pochi sforzi (circa il 20%) che portano l’80% dei risultati: non colpevoli da cercare, dunque, ma processi da migliorare.

Checklist

Non serve trovare i colpevoli ma scoprire cosa ha funzionato e cosa no

  1. Quali domande dovresti farti?

    Ogni strategia di comunicazione o marketing rivolta al pubblico deve, prima di tutto, conoscere il pubblico a cui si rivolge. Verifichiamo di averlo fatto.

  2. Quanto pubblico qualificato hai raggiunto con il tuo percorso?

    Costruiamo uno schema dei clienti e impariamo a distinguerli.

  3. Quanti contatti?

    Misuriamo quante persone abbiamo portato verso il funnel di conversione e quante siamo ora in grado di ricontattare di persona.

  4. Quante persone sono diventate clienti?

    Un cliente acquisito è solo un punto di partenza: per il nostro pubblico dobbiamo diventare un punto di riferimento.

  5. Che cosa ha funzionato? Le personas che avevi progettato sono effettivamente utili o vanno migliorate? I tuoi obiettivi di partenza erano realistici o sovrastimati? Dove hai ottenuto i migliori risultati e quando? Perché le cose sono andate come sono andate?

    Scopriamo se abbiamo capito quali sono i bisogni e i desideri futuri del nostro pubblico e valutiamo quali sono i loro problemi le loro paure

Ancora una volta: domande chiare a cui dare risposte, ancora una volta le 5W.

La cosa che dovrebbe funzionare meglio di questo approccio è che, come vediamo, è completamente indipendente dalle piattaforme. È vero, se dovessimo consigliare uno strumento su tutti, oggi, consiglieremmo di usare, ad esempio, il business manager di Facebook come abbiamo visto insieme.
Ma se domani Facebook perdesse il suo ruolo dominante, dobbiamo essere pronti a ripartire cambiando strumento ma non approccio.

Leggi altri articoli
Relazione, servizio e officine digitali. È l’ultimo miglio dell’auto elettrica
None La vettura a batteria sta trasformando i processi non solo dell’industria. La rivoluzione della mobilità sta cambiando anche l’ultimo anello della filiera automotive: le …

Non solo profitti, ma valore sociale: la carica delle tremila società Benefit
None Cresce di mese in mese il numero di aziende che, insieme al business, decide di perseguire un beneficio comune, che indica nel proprio oggetto …

Fidelizzare le persone in azienda? Il welfare è la chiave del successo
None Secondo alcune statistiche il 56% dei lavoratori ha infatti intenzione di cercare un nuovo lavoro entro l’anno: alcuni si accingono all’età pensionabile, i giovani …

La startup inclusiva che mette ordine nelle relazioni con mappe visuali
None Si chiama «Spunto Edu», è made in Bergamo, fondata da due giovani e si sta imponendo come il primo portale web per il supporto …