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L’innovazione si deve fare, ma non da soli

Innovare da soli non conviene più. Costi troppo alti, tempi troppo lunghi. Ciò non significa smettere di innovare, ma occorre aprirsi a collaborazioni anche esterne. La chiusura è infatti il primo limite da superare. Ecco gli strumenti per farlo.

Lettura 23 min.

Sommario

La mia azienda in un ambiente di innovazione
Dalle Soft Skill all’Open Innovation
Cos’è l’Open Innovation
Prodotto come servizio e innovazione aperta
Competizione vs collaborazione (o meglio, coopetizione)
Per innovare, si parte dalle persone (talk)
Tanti modi di fare Open Innovation
Open Innovation e startup
Corporate Venturing. Il caso Jcube
Open Innovation di piattaforma: Innocentive e Slowd
Società piattaforma di innovazione: CRIT (talk)
Cosa succede dalle nostre parti? (talk)
Domande di (ri)partenza

La mia azienda in un ambiente di innovazione

«Come posso rendere la mia azienda un ambiente che favorisce l’innovazione?».
Così iniziava il nostro approfondimento “13 idee per un’azienda innovativa”. L’articolo, tra le altre cose, sottolineava, grazie alla lucidità di Melissa Schilling, due dei fattori di resistenza al cambiamento che spesso troviamo nelle nostre aziende: paura e rigidità. In questo approfondimento ci occuperemo di una terza caratteristica da evitare: la chiusura. Specie quando si parla di innovazione.

L’Open Innovation (in questo articolo la troverete spesso citata come OI) è da alcuni pensata come un tipo particolare di innovazione. Eppure, date le evidenze degli ultimi anni, sarebbe più opportuno pensarla come la forma principale di innovazione. C’è chi dice, in altri termini, che l’innovazione oggi non possa che essere aperta. Con questa prospettiva guarderemo a modelli e sperimentazioni già presenti sui mercati nostrani e non solo, alla ricerca di alcune indicazioni utili ai nostri lettori.

Se dovessimo riprendere e modificare leggermente la frase iniziale, diremmo: come posso far diventare la mia azienda un soggetto attivo in un ambiente che genera innovazione? In primo luogo, infatti, l’innovazione aperta è materia di relazioni e rete, non solo dentro la mia azienda, ma anche tra la mia azienda e le organizzazioni che la circondano, dai fornitori, ai clienti, a tutti gli attori del mio “ecosistema”. Comprese le aziende che ancora non esistono e posso aiutare a nascere, grazie a un rapporto di reciproca utilità. Ma ci arriveremo per gradi.

L’innovazione aperta è materia di relazioni e rete, dentro l’azienda, ma anche con tutti gli attori del mio “ecosistema”, dai fornitori ai clienti

Dalle Soft Skill all’Open Innovation

Il punto di partenza, a cui abbiamo abituato i lettori di Skille, sono sempre le soft skill, a cui abbiamo dedicato una prima introduzione e un approfondimento a proposito di nuovi modelli organizzativi. Il motivo è molto semplice: se sposto il focus dell’innovazione da una questione legata alle tecnologie (ambito a cui spesso è associata erroneamente) a una questione di mentalità e di processo, non possiamo che riferirci a competenze trasversali.

Se poi il nostro focus diventa l’innovazione aperta, non ci servono solo le competenze trasversali per gestire processi, ma anche gruppi di lavoro e condivisione di conoscenza. In questo senso, per puntare sull’innovazione aperta un’azienda ha bisogno di soft skill e di figure dedicate. Se l’innovazione è aperta verso la propria filiera o catena del valore, ci vogliono competenze trasversali di coordinamento di una visione di insieme, per impostare e gestire un percorso di ricerca e sviluppo comune. Se l’innovazione coinvolge i propri clienti nella definizione di un servizio migliore, ci vogliono competenze di gestione di processi decisionali orizzontali.

Pensiero laterale e innovazione vivono nella stessa stanza, secondo Paul Sloane, il punto di riferimento nel mondo accademico (ma anche popolare) anglosassone sul cosiddetto “lateral thinking”. Sloane, con una formulazione che semplifica efficacemente il rapporto tra soft skill e innovazione, propone quattro regole e una “formula magica” per trasformare un’organizzazione resistente al cambiamento in un luogo dove si coltiva l’innovazione.

Cos’è l’Open Innovation

«L’Open Innovation è un paradigma che afferma che le imprese possono e debbono fare ricorso a idee esterne, così come a quelle interne, e accedere con percorsi interni ed esterni ai mercati se vogliono progredire nelle loro competenze tecnologiche».
La definizione è di Henry Chesbrough, che nel 2003 scrive un libro poi diventato il punto di riferimento per questo paradigma: Open Innovation: The New Imperative for Creating and Profiting from Technology. Chesbrough conia l’espressione Innovazione Aperta a partire dalla differenziazione tra una innovazione “chiusa” e una “aperta”.

Il paradigma dell’innovazione chiusa, ossia quella innovazione dove bisogna stare attenti a che le proprie idee non circolino, secondo Chesbrough, ha ormai smesso di funzionare. Era perfetto per un mondo di mercati che oggi non esiste più, quello dove i settori erano isolati, senza comunicazione tra di loro: una struttura a silos con una lunga permanenza di prodotti e servizi sui mercati.

L’Open Innovation è un paradigma secondo cui le imprese debbono fare ricorso a idee esterne, così come a quelle interne, e accedere con percorsi interni ed esterni ai mercati se vogliono progredire nelle loro competenze tecnologiche

Oggi non solo è impensabile pensarsi in un settore isolato dal resto del mondo, ma lo è anche tentare di isolarsi dal punto di vista della comunicazione e dell’informazione. Se è sempre più difficile voler trattenere le proprie idee, è impossibile evitare che circolino. Chesbrough incita piuttosto a fare la cosa opposta: usare idee e tecnologie esterne alla propria azienda e, viceversa, fare che le proprie idee siano usate da altri.

 

Ci sono troppe idee in circolazione per non prenderle. È questo l’assunto di partenza di Chesbrough, che viene dalla ovvia considerazione delle dinamiche di mercato ai tempi della globalizzazione, ma anche dell’instabilità dei mercati: un leit (se vogliamo) motiv già più volte affrontato qui a Skille.

All’epoca del lancio del libro, nel 2003, Chesbrough fece una ricerca su Google. L’oggetto della ricerca, come potete facilmente immaginare, era «open innovation».

Usare idee e tecnologie esterne alla propria azienda e, viceversa, fare che le proprie idee siano usate da altri: questa è la strada più efficace verso la open innovation

Ne risultarono un paio di centinaia di pagine online, tutte relative a notizie tipo «l’azienda x apre il centro di innovazione y». La stessa ricerca, sette anni dopo, produce 13 milioni di risultati. Cercheremo, in questo articolo, di districarci in un mondo ormai densamente abitato.

Prodotto come servizio e innovazione aperta

Come si diceva prima, l’innovazione chiusa era perfetta per mercati a lenta obsolescenza dei prodotti. La rapidità di cambiamento dei mercati odierna rende evidente una considerazione: il vero vantaggio competitivo oggi è lavorare con più persone possibili. Forzare l’apertura piuttosto che la chiusura e generare più rete e più scambi possibili con l’esterno dell’azienda.

Negli anni Chesbrough non ha mai smesso di occuparsi di innovazione aperta, presso la Haas School di Berkley, diventato il centro di ricerca più importante al mondo sull’OI. In uno degli ultimi libri si è dedicato all’uscita dalla cosiddetta “commodity trap”, ossia la trappola del prodotto.

Il cosiddetto “Product-as-a-service” (prodotto come servizio) è il classico esempio di come si introduce una innovazione dove è essenziale fare un lavoro di coordinamento con tutta la propria filiera e catena del valore. L’espressione nasce nel mondo delle piattaforme digitali che svincolano l’uso di un prodotto dalla sua proprietà. Si tratta di valutare le possibilità di ricorrere a forme di fidelizzazione del cliente basate sull’uso ricorrente e non sull’acquisto saltuario. Significa anzitutto vagliare la propria offerta in termini non solo di prodotto (tangibile), ma anche di relazione con il cliente e con le comunità di clienti.

Diventa una priorità focalizzarsi sulle capacità di relazione con il cliente, e non solo dal punto di vista commerciale ma anche sotto il profilo della relazione

Nel percorsi di trasformazione da prodotto a servizio - e in quella che Henry Chesbrough chiama Open Service Innovation - è sempre più importante il coinvolgimento del cliente nella progettazione stessa del servizio, mutuando esperienze che vengono dal design dei servizi al community organizing. Servono tecniche di rilevamento del passaggio di valore non solo economico: detto in altre parole, è necessario focalizzarsi sulle capacità di relazione con il cliente, non solo dal punto di vista commerciale.

Competizione vs collaborazione (o meglio, coopetizione)

Il fisico Emilio Del Giudice, in una sua celebre provocazione, definì l’economia basata sulla mera competizione una “patologia”, se osservata dal suo punto di vista. Il mondo studiato dalla biologia (a tutti i livelli, dal micro al macro) è essenzialmente collaborativo, dunque perché non dovrebbe esserlo anche l’economia?, si domanda il fisico.

La domanda è stata affrontata più volte nelle discipline economiche. Qui ci limiteremo a valutare alcune possibilità connesse con l’Open Innovation. Da ormai una ventina d’anni si parla anche di coopetizione, ossia di momenti di “sospensione” della competizione tra aziende proprio per gestire insieme fasi di cambiamento o innovazione.

Economia della collaborazione non significa non competere più, evidentemente, ma riconoscere l’importanza di definire sfide comuni con i soggetti che fanno parte della nostra filiera, in alcuni casi anche competitor potenziali. Il pensiero va soprattutto alle startup, alle aziende nascenti che spesso portano quei fattori di innovazione di cui abbiamo bisogno ma senza le spalle abbastanza larghe per esserci davvero sul mercato. Come in un rapporto simbiotico, l’Open Innovation può diventare di mutua utilità per l’imprenditore navigato e per il nuovo imprenditore, dando strumenti all’uno e all’altro.

talk

Per innovare si parte dalle persone

In proposito, Marco Planzi di Partners4Innovation (che ha sviluppato il modello a doppia elica già riproposto in Skille) cita l’importanza della condivisione e collaborazione nella definizione di strategie:

«Benché l’innovazione abbia a che fare con la scoperta e non sia semplice stabilirne il punto di arrivo a priori, quando si sviluppano nuove idee o è in corso un forte cambiamento, è necessario che ci sia coerenza con il piano strategico dell’impresa che definisce gli obiettivi di lungo termine. Il punto di raccordo tra strategia e innovazione sono le persone che, attraverso i propri comportamenti, possono costruire un’organizzazione dinamica in cui la collaborazione per risolvere problematiche di business avviene sulla base delle competenze individuali e dell’allineamento reciproco, in cui l’apertura al mondo esterno mantiene l’impresa preparata ad affrontare i cambiamenti di contesto, in cui la sperimentazione rappresenta il modo attraverso il quale testare l’efficacia della strategia e individuare buone pratiche da diffondere a tutti i livelli dell’organizzazione».

Cosa significa fare Open Innovation?

«Fare innovazione aperta non significa cestinare l’innovazione sviluppata internamente (magari dall’R&D) e gettarsi a perdifiato nella ricerca di innovazioni “pret-a-porter” fuori dai confini dell’azienda. Al contrario, Open Innovation significa costruire un vero e proprio processo in cui da un lato l’azienda costruisce un esteso ecosistema di innovazione al quale partecipano attori esterni, dall’altro lato serve coinvolgere tutti i dipendenti dell’azienda (con modalità di coinvolgimento diverse a seconda delle loro competenze) nello sviluppo delle progettualità con spirito imprenditoriale e approccio orientato alla sperimentazione pratica. Solo la costruzione del nuovo processo di innovazione aperto e coinvolgente mantiene l’impresa preparata ad affrontare il futuro».

Cosa consiglieresti agli imprenditori di oggi in materia di Open Innovation e Soft Skill?

«Oggi le risorse economiche nelle imprese sono spesso impegnate per far fronte alla spesa corrente. Occorre quindi smettere di attendere ciò che manca e ripartire da ciò che c’è e che deve diventare la risorsa principale su cui far leva per innovare: le persone. Il tema connesso alle persone che ricorre sottotraccia riguarda la mancanza di competenze di innovazione interne alle grandi organizzazioni.

Nel contesto attuale, in cui le competenze di innovazione sono difficilmente reperibili sul mercato del lavoro e spesso molto costose, questo passaggio è indispensabile: significa individuare i collaboratori che le posseggono e metterli in condizione di poterle esercitare nel contesto lavorativo, anche attraverso Assessment e iniziative mirate a conoscere meglio le vere competenze nascoste dei propri dipendenti. Il passo successivo riguarda la progettazione e il lancio di iniziative di Open Innovation (dalle Call4Ideas alle community interne d’innovazione) che possano far leva su un vasto ecosistema di “innovatori”. Un piccola nota, infine, per le piccole e medie imprese: avere un ecosistema d’innovazione non significa solo “possederlo” (che peraltro è un’attività onerosa). Per una Pmi è di valore anche far parte di ecosistemi di innovazione governati da altri, come ad esempio quelli costruiti dalle grandi imprese già attive su questi fronti, purché rilevanti ai fini del business».

Tanti modi di fare Open Innovation

Ci sono tanti modi di intendere - e di classificare - l’innovazione aperta. Sulla variabile chiave per definire i tipi di OI sono pressoché tutti d’accordo: dipende da qual è il soggetto che guida il percorso di innovazione.
L’Open Innovation può essere “governata”, come detto da Planzi, anche da altri. Tre sono le principali modalità:

  • Può esserci un’azienda promotrice che si fa da leader dell’innovazione di tutta una catena del valore
  • Ci può essere una piattaforma, dove un soggetto intermedia tra le richieste di attori diversi della filiera
  • Esistono infine forme di OI dove il focus è il coinvolgimento del cliente, per testare in modalità “lean” (snella) la propria offerta sul mercato prima del lancio effettivo, con la possibilità di apportare le dovute correzioni

Uno sguardo non poi così diverso (ma con gli occhiali dell’imprenditore cooperativo) è quello sviluppato qualche anno fa da AICCON: in una ricerca sviluppata osservando soprattutto l’ecosistema della cooperazione italiana, si afferma quanto detto sopra rilevando quattro ambiti di innovazione:

  • Ricerca e produzione di nuovi mercati: gli sforzi fatti per aprire nuovi ambiti di attività, basati su strumenti di apertura e di attrazione di idee dall’esterno
  • Ridefinire la filiera produttiva
  • Investire sulle persone, sul capacity building interno
  • Ricerca di attività a impatto sociale e ambientale, per includere la comunità dei clienti nel camnbiamento da generare

Infine, una delle classificazioni più interessanti è quella fatta dal primo (e poi anche dal secondo) Osservatorio Open Innovation e Corporate Venture Capital, curato da Assolombarda, Italia Startup e Smau, che a una catalogazione delle forme di OI preferisce un invito all’azione, diviso in quattro ambiti:

  • GUARDA:ossia azioni basate sulla raccolta di “intelligenza collettiva” e stimoli dall’esterno: call for ideas, scouting, crowdsourcing
  • FAI RETE:creazione di azioni congiunte di filiera, ma anche sviluppo di network
  • TROVA AMICI:in particolare trova finanziatori, partecipa a percorsi di incubazione, fatti “adottare”
  • CORRI:acceleratori, acquisizioni e investimenti basati sull’iniziativa corporate
 

Open Innovation e startup

Gestire l’innovazione aperta significa anche condividere il rischio. Non è facile, in una società che, come dice Simona Morini, ci porta a pensare che viviamo in un mondo pericoloso. Eppure, dice sempre Morini, questa percezione del rischio è opposta alla realtà, è anzi una strumentalizzazione. E anche la gestione del rischio di impresa, quando è condiviso, si ridimensiona.

Ci sono strumenti di incentivazione della partecipazione del rischio nelle startup innovative. Anche questa è Open Innovation. Un dato molto interessante degli ultimi anni rivela come stia significativamente aumentando l’investimento nelle startup innovative del nostro Paese

Secondo Alvise Biffi di Italia Startup, proprio queste aziende ad alta impronta innovativa «sono diventate, di fatto, il laboratorio di ricerca e sviluppo dell’impresa in Italia».

Corporate Venturing. Il caso Jcube

Partiamo dall’esperienza di JCube - incubatore certificato fondato dal Gruppo Maccaferri, dall’Università delle Marche e dal Comune di Jesi - un hub di innovazione che nasce in un territorio non scontato all’interno dell’ex-zuccherificio del Gruppo Eridania. JCube rappresenta un esempio virtuoso di come un incubatore possa diversificare le proprie attività, cogliendo opportunità che emergono dal mercato e moltiplicando, al tempo stesso, le possibilità di crescita dell’area geografica di riferimento.

Jcube nasce e si sviluppa nell’area adriatica e si apre all’Open Innovation, intesa come strumento per contribuire al rafforzamento e alla competitività sia delle aziende del territorio, sia del gruppo fondatore. Jcube è anche lo strumento per il Gruppo Maccaferri di fare corporate venturing, ovvero di sviluppare una modalità di open innovation che permette di selezionare e investire su startup promettenti attraverso un fondo dedicato. I servizi di OI offerti da JCube sono calati sui bisogni del tessuto imprenditoriale del territorio e vanno dallo sviluppo di partnership strategiche, al matching tra imprese e startup, all’organizzazione di contest.

Proprio in questo ultimo ambito possiamo inquadrare l’iniziativa “Gruppo Maccaferri Connect”, un contest pensato per selezionare progetti innovativi nei settori di riferimento delle tre sub-holding della società: il Gruppo Samp, con focus sulla meccanica intelligente, Seci Energia nel campo delle fonti rinnovabili e Naturalia ingredients per il settore food. Il contest ha raccolto più di 200 idee e alla premiazione di 3 startup che potranno iniziare una collaborazione con il Gruppo.

Qualsiasi tipo di Open Innovation si scelga, il primo passo è la condivisione di conoscenza

Nelle parole di Giuseppe Iacobelli, consigliere delegato di JCube: «Gruppo Maccaferri Connect è stata per JCube una nuova occasione per implementare una politica strutturata di Open Innovation. Abbiamo avuto conferme sulla capacità di raggiungere gli obiettivi quali-quantitativi: dal deal flow alla selezione, passando per il fine tuning di processi e metodologie che ci permettono di disporre di un Innovation Hub capace di condurre questi interventi sia per il Gruppo Industriale Maccaferri sia per ulteriori gruppi industriali».

Open Innovation di piattaforma: Innocentive e Slowd

Qualsiasi tipo di Open Innovation si scelga, il primo passo è la condivisione di conoscenza. Lo stesso Chesbrough ha fondato, coerentemente con il suo percorso teorico, una piattaforma di scambio di conoscenza ed esperienze sull’OI, una community dove è possibile leggere ricerche in materia o risultati ottenuti da casi concreti di innovazione aperta.

Il primo caso di Open Innovation sviluppato sul modello di piattaforma è probabilmente Innocentive: un luogo di confronto online (laddove però le persone presenti sulla piattaforma vengono da 200 paesi del mondo) che da più di quindici anni gemma percorsi di innovazione congiunta.

Il metodo usato è definito Challenge Driven Innovation: secondo una modalità che ha fatto scuola, Innocentive funziona con la logica della sfida condivisa, coerentemente con il già citato approccio coopetitivo, basata su una premialità. Grazie a una di 375 mila “problem solver” ogni sfida lanciata sulla piattaforma dai “solution seeker” fa nascere un confronto incrementale (il cosiddetto crowdsourcing) con risultati impensabili dentro un singolo dipartimento di ricerca e sviluppo.

Ogni sfida lanciata sulla piattaforma condivisa da altri soggetti e imprese fa nascere un confronto incrementale con risultati impensabili

La storia di Innocentive è abbastanza tipica: nata come progetto interno a un’azienda farmaceutica, Eli Lilly, di cui doveva risolvere, tramite strumenti di crowdsourcing e coinvolgimento interdisciplinare, 21 problemi di partenza, è presto diventato uno spin-off indipendente.
Diversa invece la storia di Slow/d, piattaforma italiana nata inizialmente per mettere in connessione designer e aziende produttrici, oggi firm di design strategico che si attiva su singoli casi di open innovation: da piattaforma che (in teoria) doveva auto alimentarsi, tramite un approccio peer-to-peer (dialogo tra pari), è diventata un facilitatore attivo di OI: senza il ruolo fondamentale (anzitutto fiduciario) delle persone che la gestiscono oggi non è pensabile il suo funzionamento.

Ne abbiamo parlato con Andrea Cattabriga, fondatore di Slow/d.

Andrea Cattabriga

Fondatore di Slow/d

talk

Lavorare con un’orchestra

In che modo le soft skill sono utili all’Open Innovation? E all’innovazione in genere?

«Hanno a che fare con la capacità di apprendere e sono gli ingredienti fondamentali per una sana propensione alla flessibilità. Quando innovi devi trovare spesso nuove modalità operative per mettere in campo nuovi prodotti e servizi. Questo significa risolvere nuovi problemi in modo nuovo, prescindendo quindi in parte dal concetto di esperienza per spostarsi verso metodologie collaborative e in grado di far leva su più competenze e quindi su più persone dentro e fuori dall’azienda. Si tratta di lavorare con un’orchestra senza sapere dall’inizio quali strumenti ci sono, scegliendoli mentre componi la melodia».

Qual è la vostra esperienza di Open Innovation?

«Nel 2012 Slow/d è nata dalla nostra necessità di sviluppare un modello di filiera alternativo, basato sulla fiducia e sulla collaborazione, mettendo in relazione produttori, designer e consumatore finale. Per noi l’innovazione era già un processo necessariamente aperto di partenza: quando sei piccolo e con poche risorse devi imparare a collaborare per costruirti opportunità di crescita, di apprendimento e di business.

Solo con gli anni però, abbiamo iniziato a studiare questo approccio con metodo per cercare di sperimentare dinamiche e modalità più efficaci, spostando la nostra attenzione sempre di più verso le relazioni di ecosistema, piuttosto che limitarci alle relazioni fra singoli, abbandonando spesso l’approccio a cascata a favore di un modello basato sulla sperimentazione continua.

Da qui la sperimentazione con i Fab-Lab, laboratori di fabbricazione digitale orientati all’innovazione sociale e a far incontrare imprese piccole e grandi, professionisti e creativi che condividono un approccio collaborativo. Oggi progettiamo prodotti, servizi e modelli di filiera che cercano di massimizzare l’impatto della creatività e del design innovando soprattutto in termini di strumenti e modelli di collaborazione fra i soggetti coinvolti. È il caso di progetti per le reti di impresa e i distretti produttivi, con l’obiettivo di valorizzare proprio il sistema delle competenze della subfornitura dentro la filiera, al fine di arrivare a prodotti che esaltino le specificità del territorio e che si distinguano radicalmente dalla concorrenza».

Cosa consigliereste agli imprenditori di oggi in materia di Open Innovation e Soft Skill?

«Sull’open innovation direi di cercare di chiarire i propri obiettivi e di allineare tutti i soggetti coinvolti, dai collaboratori ai partner storici: quando vuoi fare qualcosa di nuovo serve far capire cosa stai cercando di fare per non spaventare e rischiare che non venga capito il tuo intento. Siccome poi sono processi spesso a medio lungo-termine è necessario lavorare sulla parte di cultura aziendale o meglio, è molto difficile portare a casa buoni risultati da progetti di innovazione aperta se non si adotta una mentalità di apertura e coinvolgendo a partire dalle proprie persone. L’innovazione in senso largo deve diventare una funzione dell’organizzazione e serve per questo implementare processi continui: farla rimanere un episodio sporadico non aiuta a capitalizzare quanto imparato e a diventare più agili.

Dal punto di vista delle soft-skill penso valga più o meno lo stesso discorso: aiutare tutti in azienda a sviluppare un processo di crescita personale a partire da semplici obiettivi che incoraggeranno a fissarne di più ambiziosi e installare progressivamente una cultura che si fonda sul dialogo, la collaborazione e la multidisciplinarità».

Slow/d mette in luce ancora una volta la centralità delle competenze relazionali e trasversali (alle competenze e ai mercati) per far partire percorsi di Open Innovation. Nelle prossime righe, ne avremo conferma anche da altri esempi italiani che chiameremmo modelli “ibridi”, a metà tra l’iniziativa aziendale e la piattaforma vera e propria.

Società piattaforma di innovazione: CRIT

Un altro esempio virtuoso di come l’open innovation possa aprire scenari fino a qualche tempo fa impensabili è CRIT, società privata con sede in provincia di Modena, specializzata nella ricerca di informazioni tecnico-scientifiche e nell’open innovation. CRIT fornisce servizi per l’innovazione a grandi imprese, Pmi e organizzazioni. Oggi CRIT è una Srl di proprietà di 26 imprese internazionali, da Alstom a Carpigiani, da Ferrari a Technogym a Tetra Pak.
CRIT, oltre a fornire alle aziende socie servizi di scouting tecnologico, innovazione collaborativa e sviluppo dell’innovazione, sceglie le tematiche da trattare attraverso il coinvolgimento diretto delle imprese.

Anche le tematiche da trattare e approfondire nel confronto con l’esterno sono scelte attraverso il coinvolgimento diretto delle imprese

I temi selezionati - dai big data, alla ricerca & sviluppo, alla gestione della proprietà intellettuale - vengono affrontati da un punto di vista collaborativo e di filiera, attraverso tavoli di confronto, seminari, laboratori collaborativi e tecno-tour.

Proprio a partire da questa esperienza abbiamo intervistato Marco Baracchi, direttore generale di CRIT, per comprendere quali scenari e quali sfide si trovano di fronte le imprese di oggi e come l’innovazione aperta possa costituire una strategia necessaria per navigare scenari complessi.

talk

Scambio di esperienze per accelerare la crescita

Quali sono i bisogni delle startup di oggi? E quelli delle imprese?

«Le startup devono essere in grado di unire competenze tecnologiche a competenze di mercato e commerciali: imparare a essere imprenditori anche attraverso specifici percorsi formativi. Le imprese invece devono fronteggiare una sempre maggiore incertezza e una crescente complessità: volubilità dei mercati, crescita o recessione, aumento e consolidamento della concorrenza, tempi di approvvigionamento incerti, aumento della complessità dei prodotti, aumento delle richieste di personalizzazione dei prodotti e riduzione del ciclo di vita degli stessi, riduzione della dimensione dei lotti, tempi di consegna richiesti sempre più brevi, cambiamenti sempre più veloci e così via. Investire in innovazione, sia tecnologica che organizzativa e di business, in modo ponderato, è secondo me una delle strade principali per affrontare queste incertezze».

In che modo l’open innovation può essere utile per fronteggiare le sfide di cui ci hai parlato?

«Credo davvero che il confronto con gli altri, lo scambio di esperienze e la cross fertilization possa accelerare la crescita delle imprese, imparando dai successi e dagli errori degli altri e aprendo la mente a mondi lontani da quelli che si conoscono già bene. Penso sia molto meglio collaborare con chi ha competenze complementari a quelle della mia impresa, piuttosto che cercare di costruirmele da solo in casa investendo tempo e denaro che posso invece dedicare a migliorare sempre più le mie competenze distintive».

Cosa succede dalle nostre parti?

Siamo spesso abituati a cercare altrove le buone pratiche da consolidare o sperimentare sui nostri territori. Eppure, in materia di Open Innovation, non si può certo dire che il tessuto imprenditoriale nostrano stia dormendo.

La Regione Lombardia, per esempio, è stata sviluppata una piattaforma web per leggere storie di innovazione aperta ed essere aggiornati su percorsi altrui di innovazione congiunta.
«Uno strumento collaborativo promosso da Regione Lombardia con l’obiettivo di favorire e supportare lo sviluppo di ecosistemi di innovazione aperta per dare risposta alle sfide strategiche per la crescita della nostra regione, sia nel campo industriale che sociale».

Ne abbiamo parlato, in questa intervista, con Roberto Albonetti, Direttore generale Ricerca, Innovazione, Università, Export e Internazionalizzazione di Open Innovation di Regione Lombardia.

talk

Il cambiamento come collaborazione

Questo articolo di Skille si propone di esplorare il mondo dell’Open Innovation e dell’innovazione collaborativa. Come la definirebbe?

«L’innovazione nel mondo imprenditoriale è oggi un tema chiave: è sotto gli occhi di tutti che il nuovo contesto in cui viviamo chiede alle organizzazioni un alto livello di capacità di cambiamento, per adattarsi alle evoluzioni (nella tecnologia, nei mercati, nelle modalità in cui si esplica la competizione). E cambiare non è facile: se confrontiamo, ad esempio, le prime 250 grandi imprese dell’inizio del ‘900 (indice Dow Jones) con gli attuali leader di mercato, ci accorgiamo che non sono molte le sopravvissute.

Le aziende possono competere nei mercati globali solo se riescono ad innovare prodotti, servizi, processi, strumenti e modalità di lavoro.

Tradizionalmente, l’innovazione – che potremmo definire, semplicemente, come un cambiamento che produce valore – è stata gestita nelle grandi aziende da team interni di ricerca e sviluppo, mentre nelle piccole e medie imprese con difficoltà si sono reperite risorse sufficienti. Recentemente, invece, alcuni fattori (il numero di competitor, l’innovazione digitale, l’asimmetria di informazione, le turbolenze e l’interrelazione dei mercati ...) hanno indotto sempre più spesso sia le aziende grandi sia quelle di medie e piccole dimensioni a guardare all’esterno per avviare percorsi di innovazione e cambiamento: assumono valore il dialogo con i clienti, con i fornitori e con i partner, il confronto con università e centri di ricerca, la sperimentazione di idee e prototipi realizzati da start up o da esperti e scienziati che operano in enti pubblici o istituzioni accademiche. L’innovazione oggi si realizza negli ambienti “aperti”, non più nei laboratori, nei sotterranei o nelle aree isolate dal mondo come avveniva anni fa. Il presente e il futuro dell’innovazione si basano sulla collaborazione, sul coinvolgimento, sul confronto tra discipline diverse, in luoghi accessibili sia in forma digitale che in presenza.

L’open innovation, dunque, postula che le imprese utilizzino flussi di conoscenza in entrata ed in uscita per accrescere la propria produttività di innovare ed esser più competitive sul mercato. Il termine “open” richiama l’apertura del nuovo modello a idee, conoscenze, intuizioni che non originano esclusivamente all’interno dell’impresa, ma che fanno tesoro anche di risorse esterne; innovazione collaborativa significa inoltre che i suoi esiti non riverberano solo dentro le mura dell’azienda, ma possono svilupparsi ulteriormente anche al di fuori dell’organizzazione (ad esempio, attraverso una start up), con reciproco vantaggio. Si pensi a quante innovazioni non sono implementate perché lontane dal core business dell’impresa o perché non è possibile “distrarre” personale per una nuova linea produttiva.

Troviamo l’innovazione collaborativa alla base delle più grandi invenzioni e trasformazioni del nostro tempo, non solo in ambito digitale: il cambiamento passa sempre di più attraverso processi di collaborazione e contaminazione tra pensiero scientifico e pensiero operativo e l’innovazione avviene grazie al confronto tra persone che appartengono a diverse discipline e settori merceologici. Gli esempi di tali contaminazioni si incontrano nella vita di tutti i giorni: dal car sharing, all’etichetta intelligente, al supermercato del futuro, alla domotica...

Il nuovo paradigma, l’“open innovation”, può essere implementato attraverso un’infrastruttura che consenta il dialogo, una piattaforma con processi di comunicazione digitali (in ambienti di discussione e community management) e incontri in presenza (workshop, eventi, convegni e conferenze) aperti ai membri delle comunità professionali e scientifiche di riferimento, siano essi personale dipendente di grandi imprese o MPMI, studenti, partite IVA, imprenditori e rappresentanti di pubbliche amministrazioni.

Cosa sono per lei le soft skill? Qual è la definizione migliore?

Prima di entrare nella riflessione su cosa sono le soft skill, occorre pensare al mondo dell’impresa e a quali necessità e urgenze esprime. È in tale quadro, infatti, che si collocano anche le soft skill, ovvero tutte le competenze indispensabili nei contesti che evolvono velocemente, quelle meno operative o tecniche, che rinviano piuttosto alla gestione degli aspetti relazionali e comportamentali.

Potremmo definire soft skills la capacità di comunicare, di relazionarsi, di negoziare, di condividere idee, proposte ed iniziative, dubbi ed opportunità, di risolvere problemi. Vi sono poi la leadership, la creatività, la proattività, la capacità di formulare idee e di comunicarle in un modo che sia accessibile e comprensibile a tutti, la capacità di collaborare, lavorare in team, negoziare, acquisire consenso e gestire relazioni da remoto, ma anche la resilienza di fronte agli imprevisti, l’intelligenza organizzativa (intesa come capacità di comprendere i ruoli e le responsabilità), il senso di appartenenza all’organizzazione.

Come traspare, le soft skills mettono in luce l’importanza strategica del capitale umano, che risulta così uno tra i fondamentali asset dell’impresa.

In che modo le soft skill sono utili all’Open Innovation? E all’innovazione in genere?

L’innovazione si fonda sulla capacità delle persone di visualizzare, avviare e realizzare percorsi di cambiamento: confrontarsi su nuove opportunità, abbandonare schemi del passato e cercare nuovi prodotti e modalità innovative per organizzare i processi di lavoro, pensare a strumenti che meglio rispondono alle esigenze ed ai desideri delle persone. Tutto ciò richiede un insieme di skills che esulano dai contesti tecnico-specialistici e che riguardano soprattutto le competenze considerate “soft”: apertura al cambiamento, leadership, abilità di gestione del rischio e dei conflitti, capacità di affrontare e risolvere situazioni di stress e di gestire il tempo, attitudine a negoziare e a confrontarsi con persone di discipline e ambiti tecnologici differenti dal proprio e, molto importante, la volontà di restare sempre aggiornati, di guardare al di fuori del proprio mondo, sia rispetto a settori contigui, sia rispetto a quelli più lontani: un insieme di fattori che permette di avviare percorsi di innovazione attraverso un approccio multidisciplinare.

Una delle principali soft skill in progetti di open innovation è l’attitudine a comunicare, soprattutto in ragione della necessità di cambiare stile e modalità di comunicazione in base al contesto ed allo strumento utilizzato: le interazioni verbali tra le persone sono diverse e richiedono competenze differenti rispetto agli scambi che avvengono negli ambienti digitali; pensiamo inoltre alla capacità di gestire flussi di informazioni all’interno di più strumenti che sono spesso eterogenei: email, social network, piattaforme web, comunicazioni telefoniche e così via.

Potrebbe citarmi alcuni casi particolarmente interessanti di applicazione dell’Open Innovation in Italia e all’estero?

Tra le prime esperienze avviate all’interno della Pubblica Amministrazione nel nostro Paese si colloca la piattaforma Open Innovation, ideata alcuni anni fa da Regione Lombardia, che da tempo opera in logica sussidiaria, cioè nella convinzione che il compito delle istituzioni non sia quello di sostituirsi agli attori sociali, ma di creare le condizioni di contesto per facilitare a ciascuno di essi – cittadino, impresa, famiglia, autonomie locali e funzionali, rappresentanze e soggetti associativi – il raggiungimento dell’obiettivo che si è dato.

L’analisi delle esperienze nazionali e internazionali è stato un passaggio importante nella definizione di una “via lombarda all’open innovation”, a partire dai casi classici – come il programma lanciato dallo stato dell’Ohio all’inizio del decennio per arrivare ad esperienze più vicine, sia dal punto di vista culturale che di tessuto industriale: in particolare, è stato approfondito il modello adottato nei Paesi Bassi e nella Penisola Scandinava, che vedeva un accento molto più marcato sulla capacità di aggiungere valore al processo di innovazione mediante l’aggregazione di competenze diverse per raggiungere un obiettivo comune, a beneficio di tutti i partecipanti.

Un punto di riferimento da cui non si può prescindere resta il modello che la Commissione Europea ha definito “Open Innovation 2.0”, che vede la collaborazione di accademia, industria, istituzioni e società civile per fornire risposte alle sfide strategiche che i nostri tempi ci pongono.

La piattaforma Open Innovation si prefigge di offrire al territorio una piazza in cui gli attori possano interagire, comunicare, collaborare al fine di supportare l’attivazione di processi di innovazione nelle imprese, negli enti pubblici e nelle istituzioni accademiche e universitarie. Su di essa vengono discussi i principali temi di business delle imprese secondo il principio dell’innovazione aperta, in ambienti customizzati sulle specifiche aree di interesse: dal biomedicale, all’industria 4.0, dall’Internet of things, alla blockchain, fino al più vasto tema della digital transformation.

Ogni giorno le persone (oggi più di 8 mila), ”accompagnate” da facilitatori che le supportano, partecipano a discussioni su tali temi ed avviano collaborazioni nella sperimentazione di prototipi, prodotti e servizi innovativi; attraverso questo strumento le imprese attivano azioni di network su specifiche necessità progettuali, soprattutto rispetto alla partecipazione a bandi e gare regionali, nazionali e internazionali.

Il modello creato dalla piattaforma open innovation permette anche una gestione innovativa delle relazioni tra pubblica amministrazione, cittadini e stakeholders: la Regione è infatti impegnata da anni a costruire le proprie politiche tenendo conto delle indicazioni raccolte attraverso consultazioni pubbliche bottom up sui temi strategici, cui sono chiamati a partecipare cittadini, micro, piccole e media imprese, grandi aziende e, in generale, tutti gli attori del territorio.

Gli articoli di Skille sono pensati per un pubblico di imprenditori. Cosa consiglierebbe agli imprenditori di oggi in materia di Open Innovation e Soft Skill?

Una focalizzazione sulla valorizzazione delle persone che hanno una maggiore attitudine all’innovazione e al confronto è sicuramente auspicabile: ciò è possibile valorizzando e organizzando momenti di confronto e dialogo con tutto quello che sta al di fuori dell’impresa.

Altrettanto utile è guardarsi attorno per cogliere le opportunità già disponibili nel mondo del web e dei social – anche sviluppate in open source – ed inserirsi in un network già creato o in fase di creazione e in continuo aggiornamento, con il vantaggio di demandare la moderazione ad un soggetto terzo così (come peraltro avviene nella piattaforma Open Innovation di Regione Lombardia).

Il caso forse più rilevante di Open Innovation in zona è però (per chi studia innovazione) Kilometro Rosso, un «luogo di incontro tra ricerca e impresa: una struttura funzionale a generare sinergie tra attività imprenditoriali, centri di ricerca, laboratori, servizi professionali e alta formazione».

Il collegamento tra OI e Kilometro Rosso è esplicito: «Condividere per innovare e competere nel mondo. Kilometro Rosso opera in logica aperta, secondo il modello dell’Open Innovation: lo sviluppo di sinergie tra competenze diverse permette di ridurre i tempi di sviluppo e trasferire soluzioni innovative al mercato».

Condividere per innovare e competere nel mondo. Il punto di partenza è il favorire sinergie fra competenze diverse attorno alla ricerca di una soluzione innovativa

Esempi come questo danno maturità e credibilità a un approccio però ancora poco focalizzato sulle competenze. Il percorso di messa in pratica dell’Open Innovation non è breve e anzitutto passa dall’individuazione delle figure giuste che possano assumere, dentro l’organizzazione aziendale, la leadership relazionale (lo ripetiamo, non commerciale) della creazione delle condizioni di possibilità dell’innovazione congiunta, partendo dalla prima: la fiducia reciproca.

Checklist

Domande di (ri)partenza

  1. Hai mai chiesto supporto esterno alla tua azienda per innovare?

  2. Ogni quanto la tua squadra R&D ridefinisce le sue sfide?

  3. Come funziona il confronto con gli altri attori della tua filiera?

  4. Hai mai seguito le vicende di una startup che opera nel tuo settore?

  5. Hai mai usato strumenti di raccolta delle idee?

  6. Hai mai partecipato o raccolto la sfida di innovazione di un’altra azienda?

  7. Hai mai aderito a una piattaforma di Open Innovation?

  8. Hai mai coinvolto i tuoi clienti in un percorso di innovazione?

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