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#allamiaetà: Tullio Leggeri, fare della propria vita «un’opera d’arte»

Racconto. Nato a Seriate nel 1940, a otto anni è salito in corriera per vedere Giotto. Architetto e collezionista, ha intessuto relazioni con artisti da tutto il mondo e scoperto il nuovo tra chi cercava il vecchio. Perché il segreto è «guardare, guardare ancora e farsi tante domande»

Lettura 5 min.
Tullio Leggeri

Se non fosse per quella tazzina di caffè che mi aspetta sul tavolo, davanti al fuoco acceso perché ancora «fa freschino», non mi sembrerebbe di entrare in una casa, ma in un museo. All’ingresso di casa Leggeri, a Trescore Balneario, mi accoglie una teca con un abito di Giacomo Balla del 1915 («Lo vedi? C’è ancora il segno del sudore della sua festa futurista»). Sui muri, lettere, fotografie, dipinti. Marina Abramovic vestita di rosso, un’opera di Richard Long accanto a un bianco e nero di Marcello Morandini. Sul tavolo in soggiorno, la mano del manichino di un bambino, infilzata con una matita: è un regalo di Maurizio Cattelan, un pezzo dell’opera «Charlie Don’t Surf».

Tullio Leggeri ha gli occhi che brillano, mentre ripercorre le tappe di quella «contaminazione artistica» a cui non ha dedicato solo le stanze della casa, ma una vita intera. Architetto, collezionista, scopritore d’artisti e loro collaboratore, Leggeri ha curato le installazioni di Cattelan, Cucchi e Spalletti per il padiglione Italia alla Biennale di Venezia nel 1997. Ha lavorato con personaggi del calibro di Sol Lewitt, Cai Guo Qiang, Michelangelo Pistoletto, Sislej Xhafa, Olafur Olafsson. Ha riqualificato, insieme all’imprenditore e appassionato d’arte Fausto Radici, un vecchio stabilimento Italcementi di Alzano Lombardo, per riaprirlo nel 2009 come ALT – Arte Lavoro Territorio, museo d’arte contemporanea e spazio multifunzionale (rimasto aperto sino al 2017).

Cercare il bello

Sono tante le cose che vorrei chiedere a Tullio. Comincio con un commento sul golfino che indossa. Porta cucita sopra una simpatica figura del Grillo Parlante di Pinocchio. «Mi sono sempre interessate le maglie stampate, con le illustrazioni». Non lo interrompo, ritorna da solo all’infanzia. «Vengo da una famiglia di costruttori, una famiglia che probabilmente si è nutrita sempre di arte, da entrambi i lati. Mio papà ha fatto la Scuola d’arte applicata Fantoni di Bergamo, ha gli stessi anni di Giacomo Manzù, è stato a scuola con lui e tutto il gruppo dei “chiesatici” di allora. Tra l’altro, nel 1945, ha realizzato per tutti questi cementisti e stuccatori decoratori di Chiese la prima officina. Dal lato di mia mamma, invece, c’era suo fratello che ha sempre dipinto per hobby».

Sul camino di casa Leggeri campeggia una scritta in corsivo: «Se guardo il bello… prego». Il bello, per Tullio, è sempre stato un bisogno, prima ancora che una ricerca. «Quando andavo a Messa guardavo sempre per aria. Andavo a cercare il bello, le immagini… ero colpito dal fatto che le persone che avevano fatto quei dipinti in Chiesa riuscivano a raccontare storie attraverso la pittura. Io tentavo allora di disegnare e capivo che era difficile: pretendevo subito di prendere in mano la matita e fare una figura, e il fatto di non riuscire mi incuriosiva».

Tra i primi grandi amori di Leggeri, c’è Giotto, conosciuto sulle copertine illustrate dei quaderni di scuola e “inseguito” in vacanza. «Ricordo che nel 1948, a otto anni, ero a Cesenatico con mia zia e con i miei fratelli. A un certo punto, sento l’altoparlante che dice “si organizza una gita ad Assisi”, io sapevo che ad Assisi c’era Giotto… ho insistito con mia zia perché mi portasse, ma lei non se la sentiva di fare un viaggio così lungo in bus». Accade quindi, al Tullio bambino, di insistere a tal punto da farsi portare nell’agenzia dove si raccoglievano le prenotazioni. «C’era una signora, da sola, che si è impietosita e si è offerta di accompagnarmi. Ricordo di essere salito alle tre del mattino su questa corriera. Sul lato sinistro c’era l’autista e poi in mezzo il motore sporgeva coperto da una lamiera tonda. Mi sono messo a cavalcioni lì sopra e non ho mai dormito, né prima né dopo».

Leggeri sente ancora la pelle d’oca, nel ripercorrere l’incontro col “Maestro”: «mi ero aspettato di vedere Giotto come lo immaginavo perché avevo visto le figure. Però ricordo ancora che mi ha impressionato perché Giotto è didattico. Doveva influenzare le persone che erano incolte, per cui il messaggio doveva essere immediato, di grande naturalezza e di facile acquisizione. L’idea era che la gente andasse in Chiesa e leggesse subito quello che Giotto voleva raccontare. E poi è stato un genio. La cultura europea, della pittura parte da Giotto».

Cercare il nuovo

Quando il bambino cresce, si rende conto che di tecniche e stili pittorici ne esistono molti. «Quando avevo una decina d’anni, mio papà ha costruito lo studio al pittore che abitava nella nostra via, che aveva 7-8 figli e dipingeva in cucina. Era una stanza piccola, affacciata sul fiume Serio. Mi capitava al pomeriggio, dopo la scuola, di andare là a guardare cosa faceva. Il suo stile era vicino a quello del pittore Alebardi, che era di Seriate anche lui e aveva già fatto la Biennale. Lo guardavo dipingere e ho cominciato a farmi delle domande, a chiedermi perché dipingesse così, perché il suo gesto fosse più libero, meno formale rispetto alle pitture che vedevo in Chiesa».

La ricerca del bello si accompagna allora, sempre più, alla ricerca del nuovo. Tullio studia Architettura a Milano, quell’architettura che, però, è sempre stata imbevuta di creatività. «Mio papà era più razionale, più imprenditore. Io, invece, mi sono sempre sentito più simile a mio nonno, che aveva una maggiore attitudine a cercare l’arte… ha costruito lui, nel 1911 circa, la prima pista per gli aerei ad Orio al Serio. Ma secondo la sua impostazione: aveva inventato un battuto di calcinaccio macinato, bagnato, in modo che tenesse, ma allo stesso tempo fosse morbido, non rigido come il cemento. Nell’atterrare, si creava una leggera buca, che attutiva il colpo della gomma dura dell’aereo».

L’amore per l’arte contemporanea viene da sé, dettato dalla volontà di andare a vedere «chi per primo ha fatto un lavoro, chi l’ha seguito, e quali sono i passaggi che ha compiuto. Oggi, ad esempio, consideriamo naturale che dall’impressionismo si passi all’espressionismo tedesco, che disgrega la pittura, e poi si vada verso la pittura astratta, che è l’annullamento della figura. Capiamo che sono dei passaggi graduali, ma consequenziali».

Casa Leggeri trabocca di opere d’arte. Alcune sono appese ai muri, altre respirano la stessa quotidianità che respira il proprietario di casa. Sono comodini, attaccapanni, vasi contenenti fiori. Chiedo a Tullio Leggeri qual è stato il suo primo acquisto. La sua risata è fragorosa. «Non credo di avere comprato la prima opera, forse ne ho comprate cinque o sei insieme. Da ragazzo, mi è capitata la fortuna di essere stato incaricato da alcuni clienti tedeschi di fare un progetto per un importante stabilimento in Sardegna. Tutta la parcella che avevo, 5 milioni di vecchie lire, l’ho spesa in opere d’arte. Ho comprato alcune opere d’artisti che gravitavano attorno a Milano, città che stava vivendo allora un momento magico. Lucio Fontana aveva influenzato un gruppo di giovani artisti, è diventato il Vate ma anche il papà di molti di loro: per aiutarli a sopravvivere comprava loro alcune opere».

Il collezionista, oggi

Innamorarsi di un’opera d’arte contemporanea non è immediato. A me, personalmente, risulta spesso faticoso. Chiedo a Tullio come si impara ad apprezzare il nuovo. La risposta è secca e cristallina. «Facendo chilometri, andando a guardare e ancora a guardare, altrimenti finisci per comprare il già visto, il già fatto. E poi, chiedendosi sempre quanti anni ha l’artista. Se ha 30 anni, non può fare pittura astratta. La pittura astratta è stata fatta negli anni ’50, oggi si fa qualcos’altro. La tecnica con cui un artista esprime il suo linguaggio deve essere contemporaneo all’età che lui ha, all’esperienza che ha fatto. Ho sempre cercato di comprare le cose che non capivo, il nuovo, e questo nuovo all’80% si è rivelato autentico e vero. Chiaramente, qualche stupidata l’ho vista anche io. È normale».

Il vero collezionista, secondo Leggeri, è colui che è capace di andare controcorrente. «Secondo me oggi ci sono artisti da comprare che sono sottovalutati… tutti i nostri futuristi italiani sono ancora castigati perché erano fascisti. Per vent’anni sono vissuti nel limbo. Boccioni, Balla, o De Chirico dovrebbero costare di più perché sono la storia dell’arte italiana, sono capiscuola di livello mondiale».

Tra i movimenti forse troppo sottovalutati, ce n’è anche uno nato verso la fine degli anni Sessanta, volto ad unire la poesia alla pittura . «In quel momento, nei dintorni di Firenze, c’era una ricerca a livello europeo sul significato, un movimento noto come “Poesia visiva”, che tentava di combinare il significato con il significante. Il concetto era: io faccio pittura, ma devo avere un messaggio da raccontare». In salotto, Leggeri tiene l’“e-vaso” di Guglielmo Renzi. Appeso al muro, un vero e proprio rebus. Recita – ho bisogno di Tullio per decifrarlo –“Bandiera Rossa Trionferà”. «Eugenio Miccini, colui che ha pensato quest’opera, chiamò Roberto Barni, pittore di fama internazionale, e gli fece comporre il progetto. È un progetto a due mani, che amo tantissimo».

Prima di salutare Tullio Leggeri, gli chiedo cosa ne pensi degli NFT e della digitalizzazione dell’arte. Sorride. «L’arte ha sempre seguito il tempo e le tecniche del tempo. Cercare il nuovo vuol dire andare incontro anche a queste forme. Se ci fosse stato Leonardo oggi, avrebbe usato anche lui il computer. Curioso com’era…».

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