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Donne con la tavolozza. Le dimenticate pittrici bergamasche del passato

Articolo. Iniziate alla pittura dai padri per contribuire nell’ombra al lavoro della bottega, autodidatte perché non ammesse in quanto donne ai corsi dell’Accademia Carrara, oppure con la fortuna di appartenere a una famiglia benestante ma comunque costrette, alla fine, a scegliere tra famiglia e la carriera. Si chiamano Rosa Mezzera, Chiara e Isabella Salmeggia, Teresa Mallegori Vitali Sozzi e sono solo alcune delle figure più interessanti che si scovano tra le pieghe della storia dell’arte a Bergamo

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Irma Gandini, «Ritratto di Ippolita Goltara»

Si chiama Rosa Mezzera (Bergamo 1780 circa – Roma 1826 circa), è una pittrice, e la sua esistenza è documentata solo dalle sue opere e dalla corrispondenza tra Alessandro Verri con la moglie di suo fratello, il celebre illuminista Pietro Verri. Da questo fitto scambio epistolare apprendiamo che Rosa vive al pensionato romano dell’Accademia di Brera, da dove invia ogni anno a Milano, per le esposizioni annuali, paesaggi e vedute di impronta neoclassica che suscitano positivi apprezzamenti. Rosa, del resto, è nata da una poverissima famiglia bergamasca, che sopravvive soltanto dei ricavi del suo talento. E nel 1808 viene ammessa all’Accademia di San Luca. Eppure Alessandro Verri, scrivendo in cerca di sussidi e stipendi pubblici per il mantenimento di Rosa a Roma, formula il suo appello in questo modo: «Avrei molta consolazione se la Pittrice bergamasca da me raccomandata ottenesse una beneficenza. Non si può dire che sia accecato dall’amore per lei: Essa è gobba, sformata, e non ha che di bello l’anima». Fossero esistiti i social, avremmo potuto rispondere al tweet: «@alessandroverri, ma che cosa c’entra????».

Oggi le cose sono cambiate? Non c’è poi molta distanza tra quanto accaduto a Rosa Mezzera e il polverone suscitato non troppo tempo fa dagli sfottò al look della bravissima giornalista Giovanna Botteri. In politica, si fa ancora una volta un gran discutere delle «quote rosa» e nell’arte contemporanea oggettivamente le grandi artiste non mancano, ma continuano ad essere una presenza marginale sul mercato (dove in ogni caso, a prescindere, hanno quotazioni mediamente inferiori ai colleghi maschi).

È andata meglio alle artiste di successo del passato? Sembrerebbe di si, a giudicare dal moltiplicarsi negli ultimi anni delle mostre dedicate alle “Signore dell’arte”, da Artemisia Gentileschi a Sofonisba Anguissola. Ma queste sono le artiste in qualche modo già di successo al loro tempo e riscoperte come tali negli ultimi decenni. Noi ci prendiamo questo spazio per raccontare invece una storia “altra”, quella delle nostre pittrici bergamasche, ancora completamente silenziate dall’oblio.

La comunità delle artiste bergamasche

Iniziate alla pittura dai padri – pittori di fama – per contribuire nell’ombra al lavoro della bottega, oppure autodidatte perché non ammesse in quanto donne ai corsi dell’Accademia Carrara, oppure con la fortuna di appartenere a una famiglia benestante, in grado di pagare loro lezioni private da parte di artisti noti o degli stessi direttori della nostra Accademia. Spesso comunque costrette, alla fine, a scegliere tra la cura della famiglia e la carriera.

Certo è che le artiste bergamasche del passato facevano orgogliosamente comunità: spesso esponevano insieme, sorelle, amiche o colleghe che fossero, si ritraevano reciprocamente – o si autoritraevano – con pennello e tavolozza in mano, per affermare la propria professione.

Tutte grandi artiste? Niente affatto. Ma come scrisse nel 1971 la storica dell’arte Linda Nochlin, tra le prime a chiedersi «Perché non ci sono state grandi artiste?» (Castelvecchi editore), il talento nasce davvero dalla misteriosa (e insidiosa) scintilla innata del genio o non è piuttosto qualcosa che devi avere la possibilità di coltivare ed educare? «L’arte – conclude Nochlin – sia per quanto riguarda l’evoluzione dell’artista, sia per la natura e la qualità dell’opera in sé, è l’esito di una situazione sociale, della cui struttura è elemento integrante, mediata e determinata da specifiche e ben definite istituzioni».

Ecco allora emergere per prime dal passato le sorelle Chiara e Isabella Salmeggia, figlie d’arte dell’affermato Enea detto il «Talpino», diligenti (ma misconosciute) collaboratrici alle numerose commissioni della bottega paterna, nel borgo di S. Alessandro in Colonna. Eppure di Chiara conosciamo almeno un’opera in assolo, il «San Libero» per la chiesa di S. Agata nel Carmine in Città Alta, firmato «Clara/Salmetia/Berg./F.».

Esclusa dai corsi della Carrara, Teresa Mallegori Vitali Sozzi (Bergamo 1802 – 1862) segue corsi privati e non abbandona mai la pittura di paesaggio, nemmeno quando, coinvolta nelle attività patriottiche di casa Sozzi, la famiglia del marito, viene costretta all’esilio a Lugano.

Allieve private del direttore della Carrara Diotti, le due sorelle Isabella (Bergamo 1803 – 1855) e Paolina Pagnoncelli (Bergamo 1799 – 1848) si supportano a vicenda, esponendo insieme ritratti e opere sacre alla Carrara come a Brera, arrivando ad aggiudicarsi commissioni prestigiose: Isabella esegue una serie di ritratti di illustri prelati di origine bergamasca, oggi custoditi nella sacrestia del Duomo, ma anche un’«Adorazione dei pastori» per la chiesa delle Clarisse di Lovere e un «Mosè salvato dalle acque» per la chiesa di Torre Boldone. Paolina ritrae personaggi bergamaschi, da Ercole Maironi da Ponte al pittore Giacomo Trecourt, e una «Processione di S. Carlo» per la chiesa di Villa d’Adda.

Fu invece allieva privata di Enrico Scuri, altro direttore della Carrara, Giuseppina Brignoli (Bergamo 1829 – 1911 o 1921), che deve al suo sobrio classicismo la commissione di ritratti in collezioni private e di un grande dipinto per la parrocchiale di Gazzuolo nel mantovano, raffigurante il «Martirio delle tre sorelle Fede, Speranza e Carità».

Figlia di Enrico Scuri, Selene (Bergamo 1845 – 1925) si sposa con il pittore Luigi Galizzi e sin da giovanissima mette a frutto il contatto diretto con la pittura. Espone spesso a Milano e nel 1870 anche all’Esposizione Nazionale di Parigi, ed esegue anche opere sacre come la «Visione della Vergine a S. Rocco» per la chiesa di S. Anna. Adottando il gusto paterno per le ambientazioni scenografiche e notturne, ha una predilezione per dipingere storie di donne illustri ed episodi di virtù femminili, come la «Morte di Giulia Zini Vertova» riferita all’assassinio della contessa, nel 1703, ad opera del capo delle guardie del marito, che aveva tentato invano di sedurla. A trent’anni, però, sceglie di abbandonare la pittura per dedicarsi a tempo pieno alla famiglia e alla cura dell’archivio del padre e del marito, oggi confluiti in Accademia Carrara.

Giuseppina Locatelli Fagioli (Kaisershul 1876 – Bergamo 1954), nata a Zurigo da genitori bergamaschi, si segnala come una delle pittrici più preparate e professionali della sua generazione, stringendo un “sodalizio” con le colleghe Gandini, Nava e Roncalli, con le quali organizza a Bergamo una mostra tutta al femminile nel 1922. E per una volta è una madre, e non un padre, a iniziare la figlia, Luisa Fagioli Premuda, al mestiere di pittrice.

Apprendistato precoce e di tutto rispetto, presso i pittori Bosis e Tallone, per Irma Gandini (Bergamo 1886 – 1960), che nel 1908 arriva ad aprire il suo studio personale in città, dedicandosi al ritratto su commissione. Tra i suoi committenti, anche le famiglie Zavaritt e Agliardi. Nel 1924 espone alla Permanente di Milano e poi alla Mostra del ritratto femminile a Monza. Un suo delicato ritratto è dedicato alla collega e amica pittrice Ippolita Goltara Lussana (Bergamo 1886 – Ranica 1945), abile ritrattista oggi perlopiù presente in collezioni private.

Sono solo alcune delle figure più interessanti che si scovano tra le pieghe della storia dell’arte a Bergamo.

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