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Gianfranco Ferroni: il silenzio e l’attesa della Metacosa

Articolo. Un’autentica pausa dal rumore e dalle interferenze del quotidiano, che ci vede correre e correre in superficie. Osservando una dopo l’altra le “stanze” del pittore livornese accadono cose essenziali: il silenzio, la luce, la micropercezione di segnali invisibili. “Gianfranco Ferroni. La durata della memoria”, una mostra fino al 15 dicembre

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Gianfranco Ferroni

Prima di tutto diciamo semplicemente che è bella “Gianfranco Ferroni. La durata della memoria”, con la quale la “sua” Bergamo gli rende omaggio nel ventennale della morte, avvenuta nel 2001. Negli spazi della sede universitaria di Palazzo Bassi Rathgeb in via Pignolo, il percorso espositivo promosso da Fondazione UBI Banca Popolare di Bergamo, in collaborazione con l’Università degli studi di Bergamo e il neonato Archivio Gianfranco Ferroni, vede i curatori Chiara Gatti e Arialdo Ceribelli riunire una trentina di selezionatissime opere, fra dipinti e disegni, che ci accompagnano in un affondo nella “svolta” degli anni Settanta, quando tutta la ricerca di Ferroni si concentra, in solitudine, sulla “scatola-stanza” dello studio.

Superata la militanza del decennio precedente, deluso dal crollo degli ideali, dal fallimento della protesta, Ferroni sceglie la via dell’isolamento e comincia a ritrarre il silenzio delle stanze, indagando la luce e l’ombra, lo spazio e la materia. Nascono così le stanze abbandonate, le “analisi” di pavimenti e di muri sbrecciati, gli “altari laici” di oggetti nello studio. Tra i capolavori esposti incontriamo opere come “Lo studio. Sequenza” del 1974, o “Analisi di un pavimento. Londra” del 1979, o ancora “Nello studio” del 1983.

Sono gli anni in cui Ferroni, allontanandosi da un realismo di matrice ancora esistenziale, è attratto da un concetto di pittura come regia, come obiettivo attraverso il quale inquadrare una porzione del visibile per poi scandagliarla ossessivamente, decostruendola “fotogramma per fotogramma”, fino all’ultimo granello di polvere, per poi ricostruirla e restituirla come purissimo distillato mentale.

Sedotti da una tecnica strabiliante, in quanti siamo caduti di fronte alle sue opere nell’equivoco del realismo, o addirittura dell’iperrealismo? In realtà il mistero che si sprigiona dalle cose di Ferroni nasce dal loro sembrare così meticolosamente vere da essere lontanissime dal vero, sconfinando nell’astrazione: “Gli oggetti sono alibi, – scriveva l’artista – punti di infinito per dare la possibilità a luce e spazio di diventare protagonisti. Spazio e luce sono gli strumenti per cogliere il mistero. Arrivo alla follia di spiegare puntino per puntino di polvere. Perché nel micro c’è il macro. Io non voglio rappresentare qualcosa, ma penetrare al massimo il mistero che è nella cosa”.

Il silenzio dell’immagine

C’è da chiedersi come mai, nonostante la loro disarmante lucidità formale, le opere di Gianfranco Ferroni sono enigmi così difficilmente traducibili in parole, tanto che gli scritti dedicati al suo lavoro brulicano, inevitabilmente, di metafore e aggettivi. “Sospensione”, “luce”, “ombra”, “polvere”, “epifania”: sono solo alcuni dei termini che ricorrono sistematicamente.

Ma ciò che è più impattante nelle opere di Ferroni è il silenzio, quel silenzio assoluto che in condizioni naturali non potremmo mai sperimentare, una totale assenza di suono che ci risucchia all’improvviso.

Viviamo una cultura che fa fatica a vivere l’immagine senza la parola. Non riusciamo a trattenerci dal cercare di descrivere e commentare un’immagine, nel tentativo di catturare tutta la sua complessità. Nonostante però tutti gli sforzi che possiamo fare, è evidente che le immagini di Ferroni resistono ad ogni traduzione verbale, grazie a quel fondo di assoluto, ineffabile silenzio cui la parola non riesce proprio ad attingere.

Il silenzio di Ferroni può essere un’esperienza traumatica per chi, come noi, volente o nolente vive costantemente immerso nel rumore bianco delle immagini che ci piovono tutto intorno. Ma ci permette di riattivare davanti all’immagine un valore che abbiamo rimosso, quella che lo storico dell’arte e filosofo francese Georges Didi-Huberman chiama “pazienza”. La pazienza di trovare il tempo per fermarci e guardare, certamente. Ma soprattutto la pazienza da ritrovare in senso etimologico, intesa come pathos, come la capacità di patire l’immagine, di sentirla, senza bisogno di parole.

Con la pazienza, nel silenzio di Ferroni sentiamo eccome. Si sente l’attesa: “Il significato che do al mio essere oggi come artista risiede nell’attesa, – dichiarava il pittore – un’attesa sacrale, perché sacrale è il desiderio di avere una rivelazione e pur sapendo che non mi arriverà, io la cerco. Mi aspetto un significato che ancora mi sfugge, un significato che vada al di là della mia vita”.È l’attesa di quel miracolo che anche noi, insieme a Ferroni, aspettiamo, pur sapendo che non arriverà mai. Ma l’importante è l’attesa, e con l’attesa la speranza.

Il catalogo

Accompagna la mostra dedicata a Ferroni un catalogo (ed. Allemandi), che raccoglie testi dei curatori e contributi speciali di Mario Botta, Antonio Natali e Vittorio Sgarbi.

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