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«Azzorre» di Cecilia Giampaoli non è una guida di viaggio (ma per me lo è stata)

Articolo. L’8 febbraio 1989 un aereo partito da Bergamo si schianta sull’isola di Santa Maria. Muoiono 144 persone. Tra le vittime, il padre di Cecilia, autrice di un racconto che parte dal passato per leggere il presente

Lettura 5 min.
Sao Miguel, Azzorre (Foto di Marialuisa Miraglia)

Sognavo un viaggio alle Isole Azzorre da molto tempo. Un motivo vero e proprio non c’è mai stato: da una parte, il desiderio di visitare un luogo ancora “selvaggio”, decisamente meno turistico e più difficile da raggiungere rispetto alle tradizionali mete estive. Dall’altra, il grande amore per il Portogallo, per i suoi paesaggi, la sua gente, per quella lingua gutturale dalle vocali chiuse e dall’intonazione cantilenante che sto cercando a poco a poco di imparare.

Mi piace organizzare le vacanze con parecchie settimane di anticipo, affidandomi – amante delle sottolineature a matita spessa – alle guide cartacee più che ai siti Internet. È stato caricando e ricaricando pagine Amazon (sull’arcipelago portoghese non sono state pubblicate finora molte guide turistiche in italiano) che mi sono imbattuta in «Azzorre» di Cecilia Giampaoli , un libro di un centinaio di pagine pubblicato da Neo Edizioni nel 2020.

«Azzorre» non è una guida di viaggio, anche se un viaggio all’interno c’è: quello di Cecilia stessa, insegnante e scrittrice di Urbino, nel luogo dove il padre Giuliano perse la vita l’8 febbraio 1989. Quel giorno, il charter Independent Air 1851 partito dall’aeroporto di Orio al Serio si schiantò sulla cima di Pico Alto, l’unica montagna (si fa per dire: nemmeno 600 metri) dell’isola di Santa Maria, dove avrebbe dovuto fare scalo prima di ripartire per Santo Domingo. Morirono tutte le 144 persone a bordo.

Frammenti di giornale

Io non ero ancora nata, ma da quanto ho letto e mi hanno raccontato, l’incidente dell’89 marchiò a fuoco la nostra provincia. L’Eco di Bergamo dedicò pagine e pagine al disastro. Raccolse le testimonianze dei familiari delle venti vittime orobiche, i commenti del direttore dell’ufficio del traffico dell’aeroporto e di chi decise di non partire all’ultimo momento, gli stralci di alcuni interventi commemorativi tenuti dai sindaci e dal Vescovo.

Cerco qualche edizione di allora, mentre scrivo questo pezzo. Le foto sono piccole, il testo fittissimo, come non si vede più sui giornali di oggi. I titoli saltano subito all’occhio: «La partenza nel sole finita nella tragedia», «Quel pomeriggio dell’angoscia a Bergamo».

Tutti i venti ibergamaschi morti in volo hanno una loro foto pubblicata, corredata da un breve necrologio o da qualche riga di ricordo, dalla semplicità disarmante: «Il sig. Renato Stefano Nava, 53 anni, pensionato, abitante a Seriate, era un appassionato della natura e dei fiori in particolare. Dopo anni di intenso lavoro aveva voluto concedersi una vacanza in un Paese dove la vegetazione si presenta lussureggiante». O ancora, «era la nostra migliore allieva del primo anno. Così si è espresso il presidente delle scuole di acconciatura dell’Associazione artigiani parlando di Patrizia Russo la diciottenne nativa della provincia di Messina ma residente a Romano, perita nella sciagura delle Azzorre».

L’Eco di Bergamo ripercorre anche l’arrivo delle salme in aeroporto: «si può dire che tutta la comunità bergamasca fosse là sul cemento della pista battuta da un vento freddo nel momento in cui, fermati i motori, dal portellone sotto il capace ventre dell’aereo è stata calata la prima bara; ed era pure presente nel disadorno hangar, dove il dolore si è manifestato nei modi più diversi: dal pianto irrefrenabile del figlio allo strazio del marito che non trova sfogo. Immagini che non sarà facile dimenticare e destinate a segnare la memoria di una comunità che non era mai stata colpita da un evento di così tragiche dimensioni».

Al di là del pathos della narrazione (così era la cronaca giornalistica nel 1989), penso che la riflessione sull’impossibilità di dimenticare queste immagini sia vera ancora oggi. Due anni fa, quando i telegiornali trasmisero i video delle salme dei morti Covid sui camion dell’esercito, qualcuno ci rivide la distesa di bare allineate nell’hangar di Orio al Serio.

Il viaggio di Cecilia

Cecilia Giampaoli al momento dell’incidente aveva sei anni. Non è tanto per tenere viva la memoria del padre (i ricordi che ha sono pochissimi, elencati uno ad uno nelle pagine del libro) che nel 2014 decide di partire per Santa Maria. Piuttosto, per fare pace con l’assenza con cui è cresciuta, e per capire di più su quanto successe allora. «Non sono venuta per riportare in vita mio padre, il passato è passato e non si può rifare, ma ho un conto aperto con questo posto. Nel male e nel bene, sarei diversa se non fosse successo. Non sarei io».

Le dinamiche esatte del disastro non sono mai state chiarite completamente. Me le sono fatte ripetere anche io dalla coppia di isolani da cui sono stata ospite a São Miguel. João, 50 anni, allora cameriere a Ponta Delgada, mi ha raccontato di come all’inizio le notizie fossero molto confuse: «un equipaggio di 160 persone, tutte provenienti dall’India».

Poco cambia, in realtà, che i numeri e la nazionalità dei passeggeri fossero altri. Un’inchiesta stabilì che l’aereo finì sulla cima del monte Pico per un concorso di cause: la sovrapposizione delle voci tra equipaggio e torre di controllo durante le comunicazioni radio (mentre l’aeroporto di Santa Maria comunicava di tenere una quota di 3 mila piedi, il pilota ne confermava 2 mila – circa 600 metri), la scarsa visibilità dovuta alla nebbia, l’errata taratura dell’altimetro di bordo.

Nel corso del suo viaggio, Cecilia Giampaoli ha modo di incontrare testimoni diretti e indiretti della strage. Il figlio dell’infermiera che soccorse le vittime, il direttore dell’aeroporto di Santa Maria, il sindaco di allora, il giornalista salito a Pico Alto con un registratore. Soprattutto, ha modo di conoscere e ascoltare Antònio, l’uomo che quel giorno lavorava alla torre di controllo, l’ultimo ad essere entrato in contatto con l’aereo.

Nel libro, il dolore che Cecilia prova nel ripercorrere il passato si percepisce a stento, quasi per sottrazione. Le frasi che l’autrice utilizza sono lapidarie, scarne, la sintassi è paratattica. Nella storia della figlia che ha perso il padre, c’è la distanza di chi rivive il proprio lutto venticinque anni dopo , sulla propria p elle. C’è il dolore intimo, viscerale, con cui l’autrice è costretta a fare i conti per andare oltre. «Mentre mio padre moriva io ero a scuola, non so cosa sia successo davvero. Sull’isola ho provato paura, rabbia, dolore, delusione, ma anche gratitudine e affetto. La verità non è importante quanto il modo in cui scelgo di vivere le cose (…). In questo posto, ho perso e guadagnato tanto».

Il mio viaggio

Non sono stata sull’isola di Santa Maria, dove oggi sorge ancora un memoriale dedicato alle vittime del disastro. Ho visitato Pico, São Miguel e Terceira, e vi ho trovato la stessa natura selvaggia e lo stesso tempo instabile di cui parla Cecilia. Alle Azzorre dicono di avere «quattro stagioni in un giorno solo» ed è qualcosa di incredibile. Da noi, se la mattina piove, sai già che pioverà per tutto il giorno. Nell’arcipelago, invece, le nuvole corrono velocissime. Il vento le spazza via, il sole spacca le pietre, e un’ora dopo stai guidando nella nebbia o sotto un acquazzone.

Come ho già detto, «Azzorre» di Cecilia Giampaoli non è un manuale di viaggio. Forse però mi è servito molto più che una guida turistica. Mi ha aiutato a capire che non è vero che i luoghi ci parlano, ma che siamo noi, spesso, a far parlare i luoghi. Cecilia non parla del padre. Chiede alle Azzorre, ai suoi abitanti, alla cima di Pico Alto, di parlarle del padre.

Seconda cosa che il libro mi è lasciato: il ritratto del viaggiatore. Sono ben consapevole che ogni racconto, per quanto autobiografico possa definirsi, resti sempre un prodotto di finzione. Mi piace pensare però che il modo di viaggiare descritto dall’autrice sia stato davvero come lei lo racconta nel libro: un viaggio tanto interiore quanto profondamente concreto, tanto nel passato quanto nel presente. Un viaggio fatto di incontri che lasciano il segno.

Durante la sua permanenza a Santa Maria, Cecilia alloggia a casa di persone locali, si fa accompagnare nei loro posti del cuore («non ho un vero programma per questo viaggio e seguire il corso degli eventi mi sembra comunque la soluzione migliore, l’unica»), assiste a cerimonie religiose che non capisce («è un rituale, una specie di voto. Qualcuno chiede qualcosa a Dio e, se la ottiene, dà un banchetto a cui sono invitati tutti»). Assaggia ogni cosa che le viene offerta, anche la carne, che da anni non mangia più per scelta («l’offerta di cibo lontano da casa ha un valore particolare. Non rifiuterò nulla»).

Cercavo una guida di viaggio e una guida in fondo l’ho trovata. La guida a un modo di viaggiare che va oltre i luoghi fisici per cercare le storie di chi quei luoghi li ha vissuti, sudati, respirati. Di chi ci ha perso la vita. E non può fare a meno di intrecciare quelle storie con la sua.

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