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#giovanifuturi: Alberto Battistel e Diapath, l’anatomia patologica su scala globale

Intervista. Un bergamasco d’adozione venuto da Jesolo, che da circa dieci anni ha avviato un importante processo di innovazione in Diapath, azienda di Martinengo con un mercato di nicchia molto interessante, l’anatomia patologica

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Il Labopath di Diapath con un operatore

Dai ristoranti e le discoteche di Jesolo all’azienda di Martinengo specializzata in prodotti per l’anatomia patologica. Non potrebbero essere mondi più distanti, ma non per Alberto Battistel, direttore operativo di Diapath, che ha messo al centro dalla sua vita lavorativa la passione, l’imprenditorialità e l’intelligenza emotiva. Ci siamo fatti raccontare il suo percorso e la storia di un’azienda bergamasca veramente innovativa, che è passata dal distribuire prodotti di altri a creare i suoi.

MM: Cosa vuol dire anatomia patologica, e cosa fa esattamente Diapath?

AB: Ogni volta che c’è un intervento chirurgico e una biopsia si preleva del tessuto, che viene esaminato dall’anatomopatologo. Per poterlo studiare va trasformato in un vetrino da guardare al microscopio. Si tratta di un processo lungo e complesso: il tessuto viene fissato, disidratato, infiltrato in paraffina, tagliato in sezioni micrometriche e colorato. Noi ci occupiamo di questo: la trasformazione dei campioni in preparati da leggere e il supporto specialistico. Sono prodotti di nicchia, legati al 99% alla diagnosi del cancro.

MM: Avete sempre fatto questo?

AB: L’azienda è nata 30 anni fa da mio suocero, Valdimiro Bergamini, per distribuire tecnologia per l’anatomia patologica, quindi con una forte attitudine commerciale e una buona conoscenza del settore. Purtroppo quando distribuisci prodotti di altri prima o poi li perdi. In concomitanza col mio arrivo in azienda perdemmo la distribuzione di un marchio importante americano: a quel punto potevamo o cercare altri brand o cambiare strategia e diventare noi stessi produttori.

MM: Non mi sembra semplicissimo passare da distributori a produttori…

AB: Facile non è, ho avuto modo di apprezzare moltissimo l’imprenditoria familiare bergamasca: mio suocero non ha mai diviso gli utili e ha sempre investito tutto in azienda. È importante anche sapere attrarre le persone giuste: 40 persone all’inizio, ora siamo più di cento, con un forte gruppo di ricerca e sviluppo, e la nostra età media è di 32 anni. Abbiamo costruito un catalogo di prodotti a nostro marchio che vendiamo in tutto il mondo, scontrandoci con multinazionali che valgono cento o duecento volte noi. Siamo Davide contro Golia, ma ogni anno cresciamo in doppia cifra.

MM: La produzione è sempre Made in Italy?

AB: Sì, ma abbiamo una rete distributiva mondiale con circa 60 distributori e stiamo cominciando ad aprire filiali dirette. Siamo forti in Germania, Romania, Francia, Spagna… Il collo di bottiglia, in un business così delicato, è sempre la distribuzione, anche perché noi abbiamo un approccio “full service”, non ci limitiamo a vendere, ma rispondiamo di qualsiasi problema.

MM: Vendete anche test rapidi per il Covid, è un nuovo business?

AB: Si tratta piuttosto di una scelta personale, nata dalla mia esperienza. Ho preso il Covid nel marzo 2020 e non sono mai riuscito a farmi un tampone prima di essermi negativizzato. Il Covid mi ha molto spaventato: conduco una vita sana, non fumo, non ero mai stato in ospedale prima. Ci ho messo tre mesi a recuperare, ora sto bene e farò parte di uno studio medico. Durante l’estate scorsa, prevedendo che ci sarebbe stata una seconda ondata, ho fatto scouting in Corea per cercare i test antigenici rapidi, con prezzi accessibili a tutti. Abbiamo cominciato a commercializzarli a metà novembre, al prezzo equo di 9 euro, mentre in giro vedevo prezzi raddoppiati o triplicati. Ora ce lo siamo dimenticati, ma solo 8 mesi fa chi aveva due linee di febbre era terrorizzato, non potendo sapere se era Covid o influenza. Siamo stati fra i pochi a distribuire i test lecitamente, ma più che business è stata la volontà di fare qualcosa.

MM: Qual è la tua storia personale?

AB: Sono nato a Jesolo, i miei genitori avevano ristoranti in montagna e al mare. Poi i miei hanno cambiato vita e aperto un negozio di articoli per ufficio a Jesolo, dove ho lavorato anche io. Ho gestito un ristorante in discoteca, lavorato con i turisti, nel frattempo studiavo Economia e commercio a Bologna. Ho interrotto quando mio padre cambiò lavoro e mi chiese di prendere in mano il negozio. Quando vedi cento persone al giorno impari a capire cosa vogliono appena entrano dalla porta: è stata una scuola di vita che mi ha aiutato molto a sviluppare l’intelligenza emotiva, utile per qualsiasi ruolo di gestione delle persone. Cominciai a introdurre la telefonia e l’informatica e a fare il commerciale per strumenti informatici per ristoranti e hotel… Era una bella vita, andavo al mare, a giocare a golf, a sciare a Cortina.

MM: E come sei finito a Bergamo?

AB: Nel più classico dei modi. Un flirt estivo che ora è mia moglie Federica, con cui ho due figli. Inizialmente lei voleva venire a Jesolo, ma suo padre mi propose di venire qui, anche per ragioni familiari. Ho cominciato a lavorare senza conoscere il settore e mi sono innamorato.

MM: Non è stato seccante entrare in azienda come genero del presidente?

AB: L’inizio è stato complesso. Non è semplice essere il moroso della figlia, ma poi ho ricevuto grande stima, creato un bellissimo rapporto con il team e ora sono diventato socio e parte del ricambio generazionale. Ormai sono quasi più bergamasco che jesolano. Siamo una famiglia che riesce a lavorare insieme e andare d’accordo, grazie a una forte etica del lavoro. Mia moglie fa la marketing manager: in azienda lei risponde a me, a casa io a lei.

MM: E con il suocero tutto bene?

AB: Lo stimo molto, siamo diversi ma complementari. Da lui ho un unico diktat: destinare sempre una cospicua parte dei profitti in innovazione, ricerca e sviluppo. Qui vedo la lungimiranza di quest’uomo, che conduce una vita semplice, ma punta tutto sull’azienda. Io, alla fine, ho sempre lavorato per me stesso e il mio sogno è che tutti lavorino come se l’azienda fosse propria. Tre volte l’anno riunisco tutti, dal magazziniere al top manager, per mostrare cosa stiamo facendo, come fosse un’assemblea dei soci.

MM: Sei riuscito a integrarti a Bergamo o le manca sempre il mare?

AB: Torno spesso a Jesolo nei weekend, ma ho trovato i miei spazi anche qui. Gioco a calcetto a Romano i giovedì sera e amo Bergamo Alta, che regala certi scorci che pare di essere a Venezia. Bergamo mi sembra bellissima sopra la A4, sotto è più orientata al lavoro. È comunque un posto dove si crescono volentieri i figli, fra persone affidabili e con grandi valori. Questa per me è la cosa più importante.

Sito Diapath

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