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Storia (local) della lana di pecora bergamasca e di un gruppo di imprenditori coraggiosi

Articolo. Le coperte che verranno regalate come premio ai vincitori di “Ninnalana – Ninnananna alla Capanna” nascono da un progetto di economia circolare in Valgandino. Per recuperare la tradizione della lana a Bergamo. Ne abbiamo parlato con Massimo Bosio, uno degli imprenditori coinvolti

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Una coperta è una coperta. Un oggetto utile, buono per scaldarsi, per avere un po’ di morbidezza in certi momenti duri della vita. Ma finisce lì. Quando la tocchi, la compri, ti ci metti sotto, non pensi che dietro viva una storia. Eppure gli oggetti che ogni giorno usiamo sono tutti il frutto di una storia. Anche nel tempo della globalizzazione che sembra aver spazzato via tutto: le tradizioni, l’immaginario, le radici. La poesia di una bella cosa, unica e inimitabile, che testimonia la cultura di un luogo, ovvero vite, idee, lavoro. Storie appunto.

Oggi sembra vincere la merce e la mercificazione, ma in realtà non è proprio così. Quello che chiamiamo mercato globale non è un blocco unico, inscalfibile e senza interstizi. Le fenditure ci sono, e lottano per allargarsi, forti dell’orgoglio local di tanti artigiani e imprenditori. Nel cibo prima di tutto, e poi in tanti settori (il vestiario, l’artigianato) che hanno deciso di rispondere alla globalizzazione rivitalizzando le attività di un tempo e i loro prodotti. Magari riaggiornandoli o facendo rete fra piccole e medie aziende che per decenni hanno dato uno stipendio a tanta gente.

In fondo la vicenda della lana di pecora bergamasca rientra in queste nicchie che corrispondono a un territorio, nel nostro caso la Valgandino. “Ninnalana – Ninnananna alla Capanna” – il concorso di Eppen e L’Eco di Bergamo che vi chiede di mandarci un video in cui cantate la vostra ninnananna preferita (trovate tutti i dettagli qui) – ha pensato che regalare una coperta di lana di pecora bergamasca fosse una buona idea. Perché i bambini spesso ascoltano le ninnenanne sotto le coperte. E poi perché regalare una coperta di lana fatta in provincia di Bergamo vuole dire andare a scoprire la storia che c’è dietro queste coperte ruvide ma molto calde – come sanno essere i bergamaschi, a pensarci bene.

Così abbiamo incontrato Massimo Bosio della ITB di Cene, una delle cinque aziende che ha costruito una rete in grado di occuparsi della lana di pecora bergamasca e trasformarla in un prodotto vendibile sul mercato. Appena sente la parola lana bergamasca Massimo diventa un fiume in piena, racconta a getto e non si ferma mai. Comunica passione, voglia di fare e un’idea di impresa oltre il profitto. Capace di prendersi coraggiosamente il rischio di un’attività che per ora non genera guadagno ma ristabilisce l’importanza di una cultura in un territorio.

La pecora bergamasca è una varietà di pecora che non viene allevata solo a Bergamo, ma ad esempio anche in Alto Adige e Valtellina. È un animale di grossa taglia, utile soprattutto per la carne e per il latte: viene tosata due volte l’anno per ragioni di salute (la pelle della pecora ha bisogno di respirare) e produce una lana ruvida, non di grande qualità, che però è utile.
Ciò accade perché il nutrimento dato alla pecora in modo che produca latte e diventi carne buona rende il pelo più grasso. Quindi con la lana di pecora bergamasca non si fanno i maglioni o la maglieria intima. Ma i tappeti, le moquette. Mischiandola con altre lane più morbide la bergamasca fa da rinforzo e così il tappeto quando viene calpestato torna al sua forma originale.

Il progetto sulla lana di pecora bergamasca è una specie di spin off di quello sul mais spinato – ci racconta Massimo Bosio – e lo spunto si deve al vicesindaco di Gandino Filippo Servalli e a Giambattista Gherardi delle Cinque Terre della Valgandino”. Negli ultimi anni in quella zona “è venuta a mancare una fetta della filiera, insomma alcune aziende hanno chiuso, e c’è stato un abbassamento del prezzo della lana”.
I dominatori del mercato della lana sono l’Australia e la Nuova Zelanda, nazioni dove la pastorizia è alla base dell’economia e i numeri del settore sono enormi. “In Nuova Zelanda un gregge può essere formato da più di cinquantamila pecore, stiamo parlando di grosse aziende che gestiscono gli ovini con i droni e una strumentazione tecnologica di gps insieme a sistemi di comunicazione che noi non abbiamo”.

Queste aziende hanno la possibilità di giocare al ribasso sul prezzo della lana, che costa 10-15 centesimi in meno di quella bergamasca. Di conseguenza succede che un milione di kg di lana facciano 100 mila euro di differenza sul prezzo. “Funziona come la quotazione dell’oro o del rame. Ogni mercoledì viene definito il prezzo e se ci sono difficoltà nella vendita viene abbassato, anche di parecchio, cosa che rende straordinariamente competitive queste due nazioni, a discapito degli altri”.
Ad un certo punto la filiera bergamasca non è più riuscita a vendere la lana e si è ritrovata con un accumulo di materia prima. Questo mentre la Manifattura Ariete chiudeva i battenti: “Ci siamo ritrovati con tantissima lana e con l’impossibilità di lavarla e renderla utilizzabile per la filatura. La chiusura ha messo in difficoltà anche aziende fuori da Bergamo, perché Ariete era una delle aziende di lavaggio più grandi. Ce ne sono altre, come quella di Ermenegildo Zegna, che però lava solo la sua lana”.

Ciò che vi stiamo raccontando può essere riassunto in una sola parola: crisi. “Una perdita per i lavori di pastorizia, che erano una risposta alla disoccupazione nelle zone marginali, e per le aziende di lavaggio, filatura e tintura della lana”. Ma gli imprenditori della Valgandino non si sono persi d’animo ed è nata l’iniziativa di valorizzazione della lana bergamasca: “Dovevamo trovare qualcuno che si occupasse della lana sucida, cioè sporca di quei materiali che la pecora si porta addosso dal pascolo, come i cardi ad esempio”.

A farsi avanti è la Lafitex di Gandino, che di solito si occupa della tintura della lana, ma in questo caso “ha iniziato a lavare con acqua calda e sapone la lana grezza. Il costo è alto, ma c’è la soddisfazione di essere riusciti a fare ripartire l’economia circolare della lana sul nostro territorio”.
Lafitex è una delle aziende che partecipa al progetto sulla lana bergamasca. Le altre sono la ITB di Bosio per la filatura, la Isaia srl di Gandino e il Lanificio e Feltrificio Gusmini di Cene per la tessitura, la Euroconfezioni di Peia per la confezionatura. “Una volta lavata la lana viene imballata in colli da 200-300 kg per arrivare in filatura o, se si vuole colorare, in tintoria. Nella filatura viene trasformata in filo e utilizzata per fare tappeti e coperte”. È qui però che nasce anche l’idea delle coperte, “che abbiamo fatto usando esclusivamente la filiera del territorio e partendo dalle circa 90.000 pecore che pascolano in bergamasca, non poche se pensiamo alle dimensioni della nostra zona”.

Tuttavia Bosio è realista e spiega il vero significato dell’operazione: “Le aziende che si sono buttate in questa avventura lo hanno fatto per tenere viva un’attività che qui in Valgandino si è fatta per decenni. Vogliamo rivalutare le competenze del territorio, reinserirci in quel settore di prodotti fatti con la lana che caratterizza tutto l’arco alpino, come ad esempio in Alto Adige”.
Il progetto sulla lana di pecora bergamasca “non rilancerà il tessile nella nostra valle, ma contribuirà a dare un’immagine positiva del territorio, portando in primo piano le nostre tradizioni e la cultura del fare”. Ma c’è di più: “nel secondo Novecento la provincia di Bergamo ha sacrificato tutto per lo sviluppo industriale, oggi dobbiamo guardarci alle spalle per immaginare il futuro”.

Le coperte di lana bergamasca stanno avendo successo “in quella parte di pubblico sensibile al km 0 e all’economia circolare”. Il prodotto nasce da una tecnica antica riletta rispetto alle esigenze del presente, “non più coperte molto pesanti come in passato quando bisognava scaldarsi perché il clima era più rigido e non sempre c’era il riscaldamento, ma un plaid da divano, delicato, adatto all’oggi”.
Il plaid testimonia l’appartenenza a un clima culturale che si stacca dall’immagine di Bergamo territorio di sgobboni “e porta un’idea della nostra provincia come territorio dell’homo faber che in un tempo globalizzato ribadisce, seppur senza barriere, la propria identità”. Parafrasando il celebre modo di dire: “non parlare come mangi, ma parla come fai”.

Ecco allora che Ninnalana “diventa un’occasione di visibilità importante” e di sostegno del progetto da parte di chi deciderà di mandarci la sua canzoncina per dormire.
Ogni ninnananna è una piccola grande storia che incanta e nutre l’immaginazione. Non siamo lontani da quello che hanno fatto Bosio e gli altri imprenditori della Valgandino: si sono inventati un’idea che fa rima con coraggio, intraprendenza e tradizione. Perché la coperta di lana di pecora bergamasca torni ad essere una realtà del nostro territorio.

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