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#workinprogress: perché i giovani non credono più al «mito» delle piccole imprese

Articolo. Quante volte abbiamo ascoltato discorsi apologetici sulle piccole imprese bergamasche in cui «il padrone lavora di più dei suoi operai», come se questo elemento riflettesse una disciplina morale, un’etica del lavoro, e non un problema di produttività. Perché più grande è un’impresa, più sono produttivi i suoi lavoratori. E i salari sono più alti, mentre l’orario di lavoro è inferiore

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Una mattina del 2013, poco dopo la consegna di un articolo su formazione e lavoro, ricevetti una telefonata insolita dal direttore della rivista per cui avevo scritto il pezzo. Con malcelato imbarazzo, il direttore mi “suggeriva” di togliere un paragrafo. Non perché riportasse informazioni inesatte, bensì perché conteneva una citazione ritenuta inopportuna dalla redazione. Nella mia ingenuità di giovane ricercatore alle prime armi, pensai che il direttore stesse per chiedermi di rimuovere uno dei tanti passaggi in cui citavo autori — primo fra tutti Karl Marx — con una forte connotazione politica. Ero, stupidamente, quasi compiaciuto di essere risultato scomodo perché troppo radicale. Per questa ragione rimasi di stucco quando mi lesse la citazione incriminata. Non era nulla di radicale, anzi. Erano parole tratte da una intervista all’economista Marcello De Cecco pubblicata su La Repubblica l’11 ottobre dello stesso anno :

«Il Pil da noi è fermo da vent’anni. Metà Paese è nella condizione di non pagare le tasse e vive sulle spalle di chi è costretto a farlo. Collettivamente ci si siamo cullati su un’illusione pericolosa, ovvero credere che le nostre piccole e medie imprese fossero una forza. Che è come scambiare per un sintomo di sviluppo una metastasi»

Alla citazione facevano seguito una serie di dati Istat del 2009 sulla scarsa produttività del lavoro nelle piccole imprese rispetto alle grandi: il valore aggiunto medio per lavoratore, in migliaia di euro, era di 24,1 nelle aziende con meno di 10 addetti, e andava crescendo in base alla dimensione di impresa, fino ad arrivare a 59,8 in quelle con più di 250 addetti. La retribuzione lorda per dipendente era 25,3 nel primo caso e 39,5 nel secondo. Le ore lavorate passavano invece da 1662 a 1556. In sintesi, più grande è un’impresa, più sono produttivi i suoi lavoratori. Non solo. I salari sono più alti e l’orario di lavoro è inferiore.

Niente di sconvolgente né imprevedibile per chi si occupa di queste cose. Sono dati costanti. Il rapporto del 2019, ad esempio, li conferma appieno. Perché tanta preoccupazione dunque riguardo quel paragrafo e quella citazione? I dati Istat sono forse più rivoluzionari di Karl Marx? La risposta, se ci pensiamo bene, non è difficile da immaginare. In un paese dove «la quasi totalità delle imprese (94,8%) ha meno di 10 addetti», segnalare la problematicità di questo dato in termini di produttività fa a pugni con il senso comune, con la retorica diffusa secondo cui le PMI sarebbero la spina dorsale della nostra economia.

Si aggiunga che, negli ultimi vent’anni, il discorso pubblico sull’imprenditoria giovanile ha ruotato principalmente attorno all’esaltazione delle fantomatiche start-up e del binomio giovinezza/innovazione: giovani senza capitali né mezzi di produzione che scalano il mercato grazie alla creatività individuale. Ma l’innovazione non è quasi mai frutto dell’eccentricità del pensiero di una singola persona che, grazie alla sua intuizione, riesce a reperire risorse e mezzi per raggiungere la vetta con la sua piccola impresa.

L’immagine dei giovani hippie californiani che inventano il personal computer in un garage è tanto popolare quanto mistificante. Il rapporto è inverso. Solo le imprese di dimensioni medio grandi hanno margini di profitto sufficienti per sostenere il peso e l’incertezza degli investimenti in ricerca e innovazione, il cui ritorno economico è di lungo periodo. Si spende oggi per guadagnare, forse, in un tempo futuro difficile prevedere.

Un’impresa di 4 addetti (dimensione media in Italia), che entra in crisi per una manciata di fatture non pagate, come può affrontare costi del genere? È già tanto se riesce a pagare i fornitori, i mezzi di produzione che non possiede e spesso noleggia, i costi sostenuti per la sicurezza, ecc…

La criticità riguarda tutti i settori, non solo quello manifatturiero. Si prenda l’edilizia, considerata giustamente un’eccellenza del nostro territorio per l’alta qualità professionale dei muratori bergamaschi, riconosciuta in tutta Europa. Siamo bravissimi, nessuno lo mette in dubbio. Eppure non si contano gli appalti importanti — spesso legati a interventi infrastrutturali nella nostra provincia — cui le imprese bergamasche non hanno potuto partecipare perché non erano in possesso dei requisiti necessari e non erano state capaci di consorziarsi. Imprese più grandi, provenienti da altre aree del paese o dell’Europa, hanno vinto questi appalti per poi affidare il lavoro alle piccole imprese bergamasche, con ricavi decisamente più bassi per queste ultime.

Per non parlare dell’alta mortalità delle imprese edili famigliari e artigiane, fallite non per scarsità di lavoro ma proprio per le fragilità di cui sopra, che impediscono loro di superare una breve tempesta. O di reggere alle pressioni competitive avendo, come unica arma, l’intensificazione dei ritmi e l’aumento dell’orario di lavoro mantenendo i medesimi livelli retributivi.

Quante volte abbiamo ascoltato discorsi apologetici sulle piccole imprese bergamasche in cui «il padrone lavora di più dei suoi operai», come se questo elemento riflettesse una disciplina morale, un’etica del lavoro, e non il problema di produttività che emerge dai dati Istat citati qui sopra.

Lo stesso discorso vale anche per il terzo settore, il privato sociale. La grande operazione di esternalizzazione dei servizi socio-assistenziali, avviatasi negli anni novanta al fine di ridurre la spesa sociale per il welfare, ha prodotto un arcipelago di piccole cooperative che cercano di soddisfare, con risorse economiche dimezzate, i medesimi bisogni sociali un tempo in carico allo Stato.

Se le cooperative sociali sono divenute un’area di impiego di forza lavoro spesso decontrattualizzata, precarizzata e sottopagata non è certo per scelta loro o per incapacità di gestione delle risorse. È una necessità strutturale di sopravvivenza.

Dal 2013 a oggi, tuttavia, qualcosa è cambiato. Non nella dimensione d’impresa. Il nanismo resta il tratto caratteristico del tessuto produttivo. Se qualcosa è cambiato è nella percezione del fenomeno da parte delle giovani generazioni. La retorica del «piccolo è bello» sta perdendo il suo fascino anche in Bergamasca. Sono almeno dieci anni che le imprese, in occasioni di convegni o eventi dedicati al tema dell’occupazione giovanile, lamentano la scarsa attrattività agli occhi dei giovani delle posizioni lavorative che offrono. Spesso lanciandosi in improbabili spiegazioni psicologiche, sociologiche o pedagogiche, sulla scarsa tempra morale delle nuove generazioni, immature, viziate, sfaticate. Cui fa eco una pessima comunicazione giornalistica, che raccoglie e diffonde questi luoghi comuni. Ma i dati descrivono uno scenario molto diverso.

Il tasso di occupazione giovanile nel nostro territorio è altissimo. I giovani — anche per le ragioni demografiche che tutti conosciamo — sono risorsa scarsa e preziosa. E molti se ne vanno non perché, come in altre zone, faticano a trovare lavoro, bensì perché cercano, e spesso trovano, opportunità migliori.

Il recente «Rapporto Migrantes» della fondazione CEI afferma che «dal 2006 ad oggi la presenza degli italiani all’estero è progressivamente cresciuta passando da 3,1 milioni a oltre 5,8 milioni». La mobilità geografica è cresciuta dell’87% e, seppur registri i livelli più alti nel sud, interessa anche il nostro territorio. Da qualche anno ormai è avvenuto il grande sorpasso. Gli italiani residenti all’estero sono molti di più degli stranieri residenti in Italia.

Se si vogliono trattenere le giovani generazioni, forse è il caso di ragionare sulle condizioni di lavoro che siamo in grado di offrire loro, dal punto di vista quantitativo (retribuzioni maggiori, orari di lavoro ridotti) e qualitativo. Un miglioramento che — i dati esposti parlano chiaro — non può darsi senza una significativa crescita dimensionale delle imprese.

Insomma, non è di grande utilità rimuovere quella citazione di De Cecco. È più opportuno, semmai, farne il punto di partenza per un articolo. E magari avviare una riflessione su un tema di fronte al quale il mondo delle imprese è tutt’altro che insensibile, a differenza dell’attuale governo che sembra semplicemente interessato a mantenere il consenso elettorale dei piccoli imprenditori con interventi che, anziché ripensare le politiche industriali, si limitano a strizzare l’occhio all’evasione fiscale.

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