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Noi e l’ambiente: siamo sicuri di volere ancora la vita che facevamo prima?

Articolo. Vivere in un paesino di montagna popolato da un centinaio scarso di anime mi permette di guardare a quanto è successo e sta succedendo nella fase 2 da una prospettiva diversa. Il periodo di lockdown ci ha lasciato degli insegnamenti sul nostro rapporto (mutato) con l’ecosistema. Sono la nostra speranza per un futuro all’insegna del cambiamento

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Fiumenero, comune di Valbondione, alta Valle Seriana, provincia di Bergamo. Io vivo qui, in questo minuscolo paesino incastonato in una corona di montagne, composto da una manciata di case ai lati di una strada provinciale dissestata, abitato più da cani e gatti che da persone. Il virus ha bussato anche alla nostra porta per riscuotere la sua parte, ma ci ha in un primo momento spaventato anche il graduale ritorno alla normalità introdotto dalla fase 2.

Essendo punto di partenza per molti rifugi del Parco delle Orobie e casa delle cascate più alte d’Italia, il nostro comune riacquista periodicamente volume sotto il peso delle ondate di turisti, particolarmente intense nei mesi caldi. Per timore di un’affluenza eccessiva, quando a livello nazionale sono stati permessi gli spostamenti per fare attività fisica, la nostra amministrazione ha bloccato l’accesso in auto al comune per i non residenti. Un posto di blocco all’ingresso del paese ha respinto decine di escursionisti e villeggianti ignari delle disposizioni, ma si è trattato solo del posticipo di un afflusso inevitabile.

I ciclisti sono stati i primi ad accorrere, non toccati dalle restrizioni. Una processione interminabile di bici di ogni genere ha sfilato per giorni e giorni davanti alle finestre di casa mia, affacciate sul provinciale: forse per ansia di libertà, forse per necessità di sfogare lo stress, o forse per la soddisfazione procurata dal movimento conquistato sudando, in armonia con il panorama circostante. Alla definitiva riapertura delle “frontiere”, poi, sono arrivati gli escursionisti e i villeggianti. I primi hanno risposto al richiamo senza tempo della montagna, i secondi sono fuggiti dalle claustrofobiche realtà cittadine per rifugiarsi nel fresco silenzio delle loro case-vacanza. Ed eccoli tutti qui, alla ricerca di una dimensione esistenziale alternativa, di una più o meno breve pausa dal loro presente frenetico.

Ma cosa unisce in un unico discorso un ciclista, un escursionista, un villeggiante e la residente di un minuscolo comune montano, a parte l’inizio di una discutibile barzelletta? Io vi trovo rispecchiata la mia personale concezione di ecosostenibilità. Ciò che sta alla base di un comportamento responsabile verso l’ambiente e tutte le forme di vita che lo abitano è la consapevolezza di far parte di un unico ecosistema, di avere gli stessi bisogni e le stesse necessità, di sentire gli stessi richiami “ancestrali” verso una realtà che ci appartiene. La montagna è di tutti. I sentieri sono di tutti. Le piste ciclabili sono di tutti. Condividiamo qualcosa di inestimabile che vale la pena di essere preservato, non come tesoro in sé ma come risorsa preziosa per il benessere di ognuno di noi.

Più ancora che la quarantena forzata, questo lento ritorno alla normalità ci ha, spero, fatto riflettere su un altro elemento importante che sta alla base di uno stile di vita ecosostenibile: ogni nostra azione porta a una conseguenza. Poter di nuovo uscire per andare al bar non significa organizzare seduta stante un aperitivo con gli amici, perché magari tra quegli amici c’è chi ha una nonna anziana che non meriterebbe di vedere la propria salute messa a rischio. Andare a fare la spesa significa non dimenticare la mascherina (e usare il gel igienizzante), stare attenti a quello che si tocca e mantenere le distanze. Stiamo imparando che quello che facciamo porta a dei cambiamenti nel mondo che ci circonda e che essere rispettosi non è che ci costi così tanto.

Il contrappeso di questa spinta positiva è che forse non basterà nemmeno una pandemia globale a cambiare improvvisamente il nostro atteggiamento nei confronti delle tematiche ambientali. Ammiro chi è convinto che aver visto il cielo azzurro e le acque limpide ci convincerà della necessità di riduzioni drastiche delle emissioni. Tuttavia credo che sia più realistico paragonarci a un elastico che è stato tirato fino al limite della propria estensione: abbiamo rinunciato a tanto e, ora che la presa si allenta, torneremo alla velocità della luce ad essere gli stessi elastici rilassati di prima, a proteggere la nostra riguadagnata normalità da qualsiasi accenno di cambiamento.

Non si può auspicare un’improvvisa presa di coscienza collettiva anche perché ci mancano le fondamenta strutturali su cui iniziare a costruire il cambiamento. Dal mio paesino ai confini estremi della Valle Seriana vedo ripresentarsi gli stessi identici pattern di prima: chi tra noi valligiani per mesi ha gioito del poter raggiungere la propria sede di lavoro senza rimanere imbottigliato nel traffico, ora è tornato a puntare la sveglia un’ora prima con la speranza di arrivare almeno in orario. Mancano le infrastrutture, manca una rete stradale in grado di defluire il traffico crescente, mancano alternative valide al muoversi in automobile: ve lo dice una che, per tre mesi, ha fatto da pendolare passando cinque ore al giorno sui mezzi pubblici. Agevolare l’acquisto di bici e monopattini elettrici agli abitanti di grossi centri urbani non fa che aggirare il problema: chi avrebbe davvero bisogno di incentivi a una mobilità sostenibile sono le persone che vengono dai piccoli centri fuori dalle mura cittadine e macinano ogni giorno decine e decine di chilometri (che significano anidride carbonica nell’aria).

E se provassimo a invertire la prospettiva, facendo tesoro dell’esperienza maturata in questi mesi? Le vie da percorrere sono due, ma portano entrambe nella stessa direzione. La prima prende le mosse dalla tanto lodata “natura che si riprende i suoi spazi”: e se, invece che autocondannarci per il flagello che costituiamo per il pianeta Terra, accettassimo di essere anche noi parte della natura e tornassimo a riprenderci i nostri spazi? Non posso credere che l’esplosione di gioia delle persone che camminano sui miei sentieri, dei ciclisti che conquistano un chilometro di strada alla volta, dei villeggianti che respirano a pieni polmoni l’aria pulita aprendo la porta di casa, sia qualcosa che vogliamo riservare ai weekend e ai ritagli di tempo nelle nostre giornate lavorative. Se c’è qualcosa che lo smart working dovrebbe averci insegnato non è che si può lavorare stando in pigiama sul divano e sorseggiando una tazza di caffé, ma è che si può lavorare ovunque e che non siamo vincolati a quegli appartamenti cittadini che ci fanno venire tanta voglia di fuggire alla prima occasione.

La seconda via da percorrere si sofferma invece sui tesori che abbiamo scoperto strada facendo, cioè le nostre piccole realtà locali. Ci siamo accorti che l’ortofrutta all’angolo vende frutta e verdura di prima qualità, provenienti da agricoltori locali, e perfino a un prezzo accessibile. Abbiamo scoperto anzi che possiamo andare direttamente a conoscerli nei campi, gli agricoltori locali, e ascoltare la loro storia e scoprire come lavorano. Il panificio che usa farine biologiche ha introdotto la consegna a domicilio e ormai non riusciamo più a tornare al pane di una volta. Invece che uscire a cena abbiamo imparato ad apprezzare i piatti d’asporto di quel ristorante vegano, che ci gustiamo comodamente sul divano guardando qualche puntata di una serie tv. Insomma abbiamo capito che ci sono esistenze alternative, alla portata di tutti, che aspettavano solo che dessimo loro una chance.

In buona sostanza, la lezione che possiamo trarre da tutto questo è: se è vero che siamo degli elastici, che dopo essere stati tirati tornano in posizione rilassata, almeno cerchiamo di essere come gli elastici per capelli, che, dopo essere stati usati qualche volta, perdono la forma originale e si lasciano andare. Lasciamoci andare, rimaniamo di maglia larga e accogliamo queste novità sostenibili nel nostro piccolo mondo personale. Domandiamoci se siamo sicuri di volere ancora la vita che facevamo prima.

(foto di Marta Semperboni)

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