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Piccola guida agli influencer per non addicted

Guida. “Homo influencer. Lasciare il segno nell’era digitale” compie una panoramica dettagliata su un ruolo social(e) che può diventare lavoro. Servono agilità digitale, competenze che vanno dal marketing alla, creatività e voglia di fare

Lettura 5 min.

Lo confesso: non ho mai seguito in vita mia un consiglio di un influencer. Non è una questione di disprezzo, ma solo di disinteresse. Vorrei però capire quanto il fenomeno non sia solo un fenomeno ma un lavoro. Lo spiegano bene Gianluca Perrelli (inventore del fu Vitaminic, oggi CEO di Buzzoole, azienda specializzata in influencer marketing) e Marta Migliore (docente di Content Marketing alla LUISS) in “Homo influencer. Lasciare il segno nell’era digitale” (Gribaudo Editore), libro agile e chiaro che spiega tutte le varie sfaccettature dell’essere influencer.

Per l’immaginario collettivo, influencer significa soprattutto Chiara Ferragni, ma è solo la punta di un iceberg (e un ottimo argomento di gossip) di un mondo vario e ampio, che come tutte le cose in crescita ha anche aspetti negativi. Influencer, è banale dirlo, deriva da “influenza”, cioè, Treccani alla mano, “azione esercitata da una cosa o da una persona sopra un’altra”. Un qualcosa che esiste da sempre e che può andare ad esempio dalle situazioni personali (l’influenza di un amico su una decisione) al consumo.

Influenzare le scelte d’acquisto

Ed è prima di tutto per il consumo che nasce l’influencer, o meglio l’influencer marketing. Un’“istituzionalizzazione” online di un rapporto sociale quotidiano fra influenzatori e influenzati, che ha modificato radicalmente i comportamenti di scelta e di acquisto (senza il passaparola e un pizzico di moda più marketing, la saga di Harry Potter non avrebbe avuto così tanto successo). In altre parole, l’influencer ha fatto diventare la connessione d’influenza fra le persone un lavoro vero e proprio, che è tale perché contempla una tecnica, dei talenti (il carisma, la creatività, ma anche la capacità di empatia e storytelling), un mittente (ad esempio un’azienda) e un destinatario (il pubblico, cioè i follower) e un ambiente, ovvero i social network e più in generale il mercato.

“Essere influencer vuol dire riuscire ad arrivare al cuore dell’audience che dà (o nega) il proprio consenso – scrivono Perrelli e Migliore – Significa riuscire a trasformarsi in portatori sani di messaggi, emozioni e sensazioni”. Una comunicazione non più verticale, come quella della pubblicità (l’utente guarda lo spot, che gli dice delle cose, ma non può replicare), bensì orizzontale, in cui influencer e audience sono sullo stesso piano in un rapporto che si basa sul trust, cioè la fiducia, e che può arrivare anche ad essere one to one: tu influencer mi proponi un prodotto, io ti faccio una domanda perché mi interessa, ho fiducia in te e voglio saperne di più, tu mi rispondi e mi convinci.

Non è molto diverso, ad esempio, in ambito politico, dove la comunicazione orizzontale, opportunamente organizzata da un social media editor competente, è molto diffusa e si rivolge direttamente, tramite i social, al potenziale elettore, in un rapporto uno a uno che ha come obiettivo l’influenza delle proprie idee sull’utente, ma anche la volontà di presentarsi a quest’ultimo come uno “pari” a lui (ne abbiamo parlato, in parte, in un articolo dedicato all’ultimo libro di Fabio Volo): quindi un post sulla questione immigrati e uno su quanto sia buona la Nutella. E il gioco è fatto.

Influencer e followers

Ma a chi si rivolge prevalentemente un influencer? A tutti in potenza, ma nello specifico a quella che viene definita Generazione Z , “la più grande generazione di consumatori mai esistita, che ha stravolto le leggi del mercato, rifiutando l’eredità di un mondo contaminato (non solo in termini ambientali), lasciata loro dalle precedenti generazioni”. Si tratta di ragazze e ragazzi nati fra la seconda metà degli anni Novanta e la fine degli Anni Zero: sufficientemente agili nel manovrare gli strumenti digitali, diffidenti verso tutto ciò che riguarda il passato (a partire dalla comunicazione “istituzionale” di tv, radio e anche internet, se parliamo di banner o Dem) e in parte il presente (certi social network come Facebook, popolati da persone sempre più adulte, a favore di Instagram o TikTok) e interessati a temi “nuovi” che sono sempre più attuali. Vedi l’ambiente, l’identità di genere, le questioni come Black Lives Matter etc.

Nell’approccio al consumo, gli Z non sono più interessati al mero prodotto e stanno attenti ai valori che ritengono importanti (in primis quello ambientale): molte aziende hanno risposto prontamente a queste nuove esigenze, che denotano la volontà di un marketing “più umano”, dove un brand diventa un’esperienza, meglio ancora se valoriale. E gli influencer hanno saputo frapporsi fra questi due poli, rappresentando una soluzione a questo cambiamento.

In ballo ci sono, fra le altre cose, gli sviluppi della Teoria dell’identità sociale dello psicologo Henri Tajfel . La Generazione Z (ma in maniera minore anche i Millennials, come chi scrive, o i più anziani Baby Boomers) al cospetto di un influencer interagisce in base a due bisogni: quello di individualità e quello di appartenenza. “Il vero significato della moda sociale sta proprio nella combinazione di questi due opposti sentimenti: desiderio di uniformità e desiderio di diversità”. Per moda sociale possiamo intendere il consumo (le Nike Air Jordan), ma non solo, e l’influencer deve saper gestire questi due aspetti, anche in base alle peculiarità del prodotto e alle esigenze del brand .

Influencer e brand

Di conseguenza, il rapporto fra influencer e brand diviene di vitale importanza per la buona riuscita di una campagna di influencer marketing. Spesso è l’azienda stessa a contattare l’influencer, spinta dall’esigenza di cambiare il proprio modo di comunicare o di aggiungerne un altro a quelli già messi in atto. Ma deve essere l’influencer giusto per quel prodotto (un influencer che non usa tisane dimagranti non potrà proporle ai propri followers, ci vogliono credibilità e coerenza) e fra le due parti deve crearsi una brand affinity (un “ritrovarsi” fra le due parti) che inevitabilmente rimanda anche al rapporto dell’influencer con il proprio pubblico. Del resto, il prodotto ricevuto in carico dall’influencer diventerà un elemento di trust con chi lo segue, dunque “ricevere il prodotto dell’azienda ha un ruolo ‘emotivo’, prima ancora che ‘economico’”.

A fronte di tutto questo, diviene essenziale il momento del brief, il confronto in nome della mediazione fra le esigenze del cliente e il desiderio di libertà creativa dell’influencer. Un buon influencer professionista deve saper amministrare al meglio questo passaggio, non tralasciando, laddove ce ne fosse bisogno, di collaborare con figure complementari (come copywriters, video editors, fotografi, etc.). E deve saper modulare la propria azione di marketing anche in base al feedback dell’azienda o dell’agenzia che gli ha assegnato il compito per conto di un’azienda.

Influencer per lavoro o no

Secondo “Homo influencer”, il 24% degli influencer non richiede retribuzioni, ma scambi di prodotti o referenzialità presso altri brand. Dall’essere un passatempo al diventare un lavoro vero e proprio, l’influencer deve compiere un percorso di crescita in tre tappe: il Beginner, l’Aspirante Pro e il Professionista. Le tre categorie si differenziano per la volontà di trasformare il tempo speso per “influenzare” in lavoro (il Beginner lo fa per passatempo, l’Aspirante vuole mutare la sua passione in un lavoro), le competenze acquisite (il Beginner spesso è un autodidatta, l’Aspirante vuole essere aiutato a professionalizzarsi) e il “nome” che si è fatto nel tempo, crescendo fino a diventare Professionista.

L’influencer Professionista ha trasformato definitivamente il suo ruolo di influencer in un lavoro, lo svolge a tempo pieno e vuole consolidarlo sempre di più, accrescendo il suo circuito di collaborazioni ma anche tutelando il proprio valore. Ed è qui che entra in gioco la questione economica: il Professionista presta attenzione al compenso come riconoscimento del proprio valore, mentre l’Aspirante può essere ricompensato ed è questa la sua aspirazione. In questo senso, progettualità verso il proprio futuro professionale, consulenza di un advisor e consapevolezza sul proprio posizionamento di mercato sono punti indispensabili per un influencer Professionista.

Influencer buoni e influencer cattivi

È chiaro che dinanzi ad un panorama come questo – che qui abbiamo sinteticamente riassunto – diviene centrale la responsabilità di ogni influencer, in particolare gli Aspiranti e i Professionisti. Ma anche una regolamentazione specifica, che ad oggi manca. In una realtà di marketing dove contano fiducia, affinità con il brand e serietà, è necessario distinguere fra influencer buoni e influencer cattivi. I primi rispettano e cercano di incrementare i valori appena elencati; i secondi cercano di fare i “furbi”, tra fake follower e un approccio all’influencer marketing che non bada alle peculiarità del brand, del prodotto e dei propri followers – che inizieranno ad abbandonarlo.

Ma come si dice, spesso i nodi vengono al pettine, e le cattive influenze, al pari della vita reale, vengono isolate. Perché in fondo quella degli influencer è una realtà che coincide – se non del tutto, sicuramente nel bene ma anche nel male – con la vita di tutti i giorni. Di noi cittadini, consumatori. E nel nostro piccolo, influencer di un mondo sempre più complesso e in evoluzione.

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