
Il ritmo di Manu Dibango sul palco del Bergamo Jazz Festival.
La sua lunga storia Manu Dibango, uno dei simboli della musica africana, l’ha raccontata nel libro Tre chili di caffè: vita del padre dell’Afro-Music, tradotto anche in italiano (da EDT). Riassunta in poche righe, suona così: nasce il 12 dicembre del 1933 a Douala, Camerun; nel 1949 è in Francia, a Marsiglia, poi a Reims e Parigi, dove studia e inizia a suonare nei jazz club; nel 1960, sull’onda dei movimenti indipendentisti, fa visita in vari paesi africani; nel 1969 inizia a collaborare con il cantautore Nino Ferrer; nel 1972 registra “Soul Makossa”, autentico manifesto di fusione fra tradizione e modernità destinato a vendere milioni di copie. Da qui si susseguono album, tournée in tutto il mondo e Manu Dibango assurge al rango di star: al successo musicale si accompagnano numerosissimi riconoscimenti istituzionali, cittadinanze onorarie, cavalierati, sino alla nomina, nel 2004, di “Artista per la Pace” da parte dell’UNESCO. Insomma, Manu Dibango è una personalità che per carisma teme pochi rivali. Nel 2019 il “Leone d’Africa” festeggia i 60 anni di una carriera musicale straordinaria che lo ha visto incidere una settantina di dischi, collaborare con altri artisti internazionali, africani e non (da Fela Kuti ai Fania All Stars, da Don Cherry a Peter Gabriel, da King Sunny Ade a Angelique Kidjo, da Youssou N’Dour ai sudafricani Ladysmith Black Mambazo; anche Jovanotti). Il jazz fa parte del suo background, è sempre stato un suo punto di riferimento: anni fa ha reso omaggio a Sidney Bechet e più di recente ha registrato un album di sole ballad, Ballad Emotion.