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Daniele Rocchetti: come la pensa Molte Fedi

Intervista. Intervista al coordinatore della grande rassegna culturale iniziata il 6 settembre e incentrata sulle possibilità di una rinascita sociale e culturale

Lettura 7 min.

Daniele Rocchetti, presidente delle Acli di Bergamo, è il “capo” di Molte fedi sotto lo stesso cielo. Rassegna culturale multiforme dai grandi numeri (quest’anno già 15 mila prenotazioni, l’anno scorso 40 mila presenze) e dalla straordinaria densità intellettuale (il programma lo trovate qui). Abbiamo fatto due chiacchiere con lui per approfondire cosa significa – a livello organizzativo ma soprattutto di pensiero – costruire un appuntamento come questo, giunto ormai alla 12esima edizione. Il tema di quest’anno è “Può forse tardare primavera?”.

LB - Come lavorate su una rassegna così grande e multiforme?

DR - Cominciamo molto presto, circa a metà ottobre dell’anno precedente sino all’aprile successivo. C’è un gruppo di progettazione, il nostro “pensatoio”, formato da persone differenti: insegnanti, lavoratori del sociale e altri. La forza di Molte Fedi è la cura nella progettazione, lunga e molto curata, che nasce anche da tante chiacchierate con alcuni amici storici della nostra rassegna, come Gad Lerner (foto sotto), Silvano Petrosino e Enzo Bianchi. Oltre a me ci lavorano due persone e da quest’anno un ufficio stampa. Una struttura leggera supportata dall’ausilio di centinaia di volontari presenti ai diversi appuntamenti e animati semplicemente dalla volontà di dare il proprio contributo.

LB - Incontri con grandi personalità, camminate, teatro, cinema, cene con rappresentanti di altre confessioni religiose e molto altro. Come nasce tutto questo?

Molte fedi è nato da una presa d’atto riguardante la mutazione in corso sul nostro territorio, che sta diventando sempre più plurale, con fedi e culture diverse. Abbiamo trovato una nostra strada fra chi crede che ogni contaminazione avvenga naturalmente e chi invece pensa che il meticciato debba essere ostacolato in tutti i modi possibili. Pensiamo che i profondi cambiamenti che stanno accadendo debbano essere accompagnati da un discernimento altrettanto profondo.

LB - Ovvero?

DR - Dobbiamo andare al cuore della nostra esperienza religiosa e, insieme, imparare le grammatiche delle fedi altre, riscoprendo il valore sempre dialogico dell’identità, che non è un fatto divisivo ma è il cuore dell’esperienza di stare dentro un mondo inevitabilmente sempre più plurale. Perché in fondo credenti di diverse fedi e non credenti dove possono ritrovarsi? Nell’umano. Da lì andiamo a interpellare i pensanti, che ci possono aiutare a decifrare il nostro tempo. Non conta che siano credenti o meno, a loro chiediamo una passione che riguarda la costruzione dell’umano oggi.

LB - Il tema come lo scegliete?

DR - Il tema ogni anno nasce dal lavoro di equipe del nostro pensatoio e dalle chiacchierate di cui dicevo prima. Alla base c’è l’idea che la cultura sia la capacità di interpretare il presente e le sue questioni fondamentali, qualcosa lontano dalle accademia e vicino agli uomini.

LB - Quest’anno è “Può forse tardare primavera?”.

DR - Deriva dalla suggestione di una persona del pensatoio appassionata di poesia, è un verso di Percy Shelley. A livello sociale questi ultimi anni sono stati all’insegna del rancore, del risentimento e della rabbia. Sentimenti profondi e radicati che si sono trasformati in una proposta politica a diverse fasi, la più recente è stata quella dell’ultimo governo (si riferisce a quello gialloverde, ndr). Sono venute alla luce le fatiche dello stare insieme, la difficoltà a trovare “terre di mezzo” tra persone e mondi. Ma se leggessimo solo questi segnali negativi avremmo una visione superficiale che ci porterebbe al cinismo e alla rassegnazione.

LB - Invece?

DR - Invece esistono sul nostro territorio tantissime realtà, da noi chiamate “semi sotto la neve”, che quotidianamente creano ponti e legami, costruiscono accoglienza e sono oasi di umanità nella devastazione che stiamo vivendo. Sono associazioni, gruppi informali di persone, giovani che vogliono un’Europa senza muri e altre entità che praticano l’accoglienza e il dialogo. Molte fedi le ha conosciute creando delle sinergie con loro e siamo convinti che nonostante tutto ci siano segni di primavera che sbucano. Un capitale sociale su cui vogliamo scommettere.

LB - Quindi alla domanda del tema di quest’anno c’è una risposta positiva.

DR - Assolutamente. Non dobbiamo eliminare la drammaticità della Storia, che c’è sempre stata. Ma insieme è fondamentale ricordare la responsabilità di ognuno di noi verso il mondo, qui e adesso. Questa drammaticità storica interpella la nostra coscienza. Nel Talmud si legge “Se io non sono per me, chi è per me? E, se io sono solo per me stesso, cosa sono? E se non ora, quando?“. La risposta può essere quella di subire la realtà per quello che è oppure di chiedersi come custodire l’umano. Molte fedi è un tarlo che si rivolge alla coscienza, un appello alla libertà di ognuno, una possibilità settimanale di affrontare le questioni determinanti del presente e provare a vederci più chiaro.

LB - Prima citavi l’associazionismo, i giovani… ma la politica?

DR - Questa è una bella osservazione. La devastazione culturale e antropologica attuale corrisponde a una politica che fatica a costruire l’umano. Quello che noi stiamo facendo è molto politico, nel senso che lavora sul pre-politico, su un insieme di valori fondanti che vanno nuovamente verificati prima di tutto formando le coscienze. È quel “restiamo umani” che ci piace molto. Oggi è un tempo di semina e ci vorrà molto tempo per ritrovare le ragioni della convivenza umana e del bene comune. Una classe dirigente non si improvvisa, la si prepara e la si accompagna ed è sempre frutto di un percorso condiviso.

LB - Insomma la politica ora è inadeguata.

DR - La politica negli ultimi anni ha liberato i peggiori sentimenti che stanno nel cuore di ciascuno, a causa di una classe politica inadeguata e incapace di vedere più in là, dove risiede il bene comune, che va oltre il particolare e il consenso immediato. In tempi brevi non cambierà molto, ma il nostro lavoro e quello di chi crede nell’umano deve essere lento e continuo. In fondo Molte Fedi raduna ogni anno circa quarantamila partecipanti, poco se pensiamo ad esempio al pubblico televisivo. Ma abbastanza per immettere fra le persone un pensiero critico e progettuale che riguardi l’umanità di tutti.

LB - Prima non ho citato i Circoli di R-Esistenza, un’iniziativa originale in una rassegna culturale.

DR - Sono occasioni dove le persone non possono solo ascoltare, come negli incontri, ma ascoltare e parlare, confrontarsi. Ogni anno affidiamo a questi circoli un libro su cui riflettere. Quest’anno è “Economia e Profezia” di Luigino Bruni (foto sopra), scritto appositamente. L’obiettivo di questi Circoli e anche di tutti gli altri appuntamenti è garantire non la vastità dell’evento ma la profondità del pensiero. Perché è innegabile che esista anche un consumismo culturale che rende tutto inconsistente.

LB - Sono contento che tu lo dica. La cultura non è tutta buona in sé, ma lo diventa se non è soffocata dal consumo.

DR - La cultura è vittima del consumo quando porta le persone a muoversi solo verso un certo tipo di proposte, di solito con personaggi mediatici, che generano un’attrattiva per il protagonista ma non per quello che dice. Quindi dobbiamo soprattutto custodire la profondità, la vastità si squaglia.

LB - Economia, consumo, quindi denaro, mercato e neoliberismo. Che ha una responsabilità enorme nella devastazione in corso. Ho l’impressione che la parola neoliberismo sia un po’ fuori dal vocabolario di Molte fedi.

DR - È una questione interessante. Un anno abbiamo usato la parola denaro per un nostro titolo. Il capitalismo, che ci ha obbligato alla funzione di consumatori, ha anche svuotato l’idea di cittadinanza e comunità in nome del mercato. A noi piace affrontare la questione dell’economia da un altro punto di vista, parlando di economia sociale e circolare o chiamando economisti come Luigino Bruni. Abbiamo preso l’ambiente come paradigma per leggere le categorie dell’economia, ad esempio con Carlo Petrini. Ci è chiaro quale è il Moloch da combattere, la strategia con cui combatterlo magari non è così evidente ma c’è. Nella Bibbia si dice che l’ebreo è sedotto dalla magnificenza della statua di Nabucodonosor. Ma quella statua ha i piedi d’argilla e cade. Le scelte quotidiane, la custodia un pensiero altro e divergente, la rete di legami che cresce, sono i modi con cui avviare il cambiamento necessario.

LB - Non pensi che lo stato delle cose attuale sia anche dovuto ad una certa incapacità degli intellettuali di parlare a tutti o quantomeno a tanti?

DR - Sì, tanti intellettuali sono venuti meno alla loro funzione di decodificare il presente. Questo è accaduto soprattutto in Italia e quindi anche le classi dirigenti sono rimaste impreparate ai cambiamenti che si prospettavano. Nella sezione della storia in questi anni abbiamo proposto figure come Giorgio La Pira, Tina Anselmi e Aldo Moro e quest’anno Mino Martinazzoli. Se ci pensi, al di là delle divisioni ideologiche, sono stati dei giganti di grande rigore intellettuale. Oggi chi ti viene in mente? Comunque tornando agli intellettuali, tanti, ma non tutti, per molti anni si sono chiusi in una sorta di club esclusivo, anche con un po’ di puzza sotto il naso verso le persone. Una sorta di fastidio nei confronti di ciò che è popolare. Noi invece lo ripetiamo spesso: bisogna essere popolari, non populisti. Farsi intendere dai tanti che rischiano di essere sedotti solo dagli slogans gridati.

LB - Ho notato che nella scelta dei relatori evitate lo scontro forte fra visioni radicalmente contrapposte. Insomma non farete mai dialogare, ad esempio, Lerner con Belpietro.

DR - La bipolarità non aiuta: ce n’è già tanta, ognuno cerca la persona che gli dia ragione e sempre meno il confronto. Se facessimo dei dialoghi come dici tu otterremmo un effetto tribù: chi sta con uno e chi con l’altro. A noi invece interessa che all’interno di un’area culturale le questioni vengano problematizzate, persone come Gad Lerner o Marco Damilano fanno questo. Oggi è tempo di rendere ragione, di non dare più nulla per scontato.

LB - Ecco, nell’era della polarizzazione fra idee contrapposte, questa è una parola che si sente sempre meno: problematizzare.

DR - Abbiamo bisogno di persone che passino dall’enunciazione di certi valori alla capacità di mostrare il significato di questi valori, senza tautologie e dogmi. Oggi è un esercizio che non è ancora praticato a sufficienza: dimostrare la pertinenza antropologica, culturale, economica e politica delle ragioni e dei valori utili per costruire l’umano. È semplice dire “accoglienza”, è molto più difficile rinforzare questa parola mostrandone il senso. Altrimenti è una guerra a chi grida più forte.

LB - Niente polarizzazione però significa anche che è difficile raggiungere chi vota con la rabbia nella matita.

DR - Difatti da qualche anno, e sempre con più energia, lavoriamo con le scuole. Con queste attività raggiungiamo ormai cinque o seimila giovani, a cui proponiamo un profondo e speriamo duraturo lavoro formativo. A molti incontri partecipano tantissimi studenti e diversi relatori il giorno dopo vanno nelle scuole. Poi ci sono i libri che pubblichiamo: quello di Liliana Segre, a 2 €, è stato acquistato da 2800 studenti. Infine, sempre più in questi anni, abbiamo imparato ad usare linguaggi diversi come il teatro (quest’anno Lella Costa e Paolo Fresu, ndr), la musica, il cinema (nel programma un calendario di film insieme a Lab80, ndr), le visite guidate.

LB - Un esempio?

DR - Siamo orgogliosi di aver portato centinaia di bergamaschi a bere il tè al Centro Culturale Islamico di Bergamo, in via Monte Cenisio. Persone che magari in un posto simile non ci sarebbero mai andate si sono ritrovate a condividere il cibo con uomini e donne musulmane. Bisogna trovare linguaggi che attraversino le tribù in cui siamo contrapposti e parlino a tutti. Pensa ai Circoli di R-Esistenza: li frequentano anche persone che agli incontri non vengono. Per noi questo è motivo d’orgoglio, perché cambiando la modalità dell’appuntamento abbiamo avvicinato altre persone.

LB - Visto che parliamo di pubblico chiudiamo con quello. Che pubblico avete? Quanti non credenti?

DR - Molte Fedi è uno spazio sulla soglia fra credenti e non credenti. Non dimentichiamo che la Bibbia ha una valenza antropologica universale, parla a tutti proprio dell’umano. È il grande codice dell’Occidente. Bisogna toglierlo dal recinto confessionale. Per questo sono tanti i diversamente credenti che affollano i nostri incontri. Anche anche grazie alla collaborazione con realtà culturali distanti da noi, penso al Mutuo Soccorso di via Zambonate o alla Fondazione Zaninoni. Resto convinto che il discrimine oggi non è più fra credenti e non credenti bensì fra pensanti e non pensanti. Questo confine passa dentro e fuori le chiese ed è solo puntando sul pensiero e sull’umano di tutti che arriverà la primavera.

http://www.moltefedi.it/

(questa intervista è dedicata alla memoria di Fabio Sartirani, piratesco compagno di tanti pensieri, anima vibrante)