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Educare un figlio maschio è diverso da educare una figlia femmina?

Articolo. È insolito che oggi un genitore ponga volontariamente limiti all’educazione dei suoi figli in base al sesso, ma alcuni stereotipi sono duri a morire. Allo stesso tempo ne nascono di nuovi, come il fatto che per essere “in gamba” una bimba debba per forza rifiutare frivolezze e abitini rosa o che i bambini maschi siano “meno svegli” delle femmine

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Qualche giorno fa, dopo l’ennesimo brutale caso di femminicidio, in rete è ricominciato a circolare uno slogan molto amato: «Invece di proteggere tua figlia educa tuo figlio».

Il messaggio è chiaro, e anche condivisibile: non sono le donne a doversi proteggere dalla violenza maschile, ma sono gli uomini che dovrebbero essere istruiti a modificare i loro comportamenti. Giustissimo. Eppure più vedevo questa frase postata sulle bacheche di tante amiche più avvertivo un moto di fastidio.

Gli stereotipi “al contrario”

Secondo lo slogan, io non devo pensare a proteggere mia figlia, ma a educare mio figlio. Avendo io sia il maschio sia la femmina mi sento tirata in causa. Ci ho pensato a lungo finché ho capito per quale ragione mi stavo irritando. Perché dovrei presumere che mio figlio maschio, un timido bambino di 5 anni, abbia un’attitudine alla violenza e alla prevaricazione tale da dovere essere sradicata dall’educazione? E perché dare per scontato che mia figlia femmina, un uragano di 2 anni, non abbia bisogno di essere educata allo stesso modo alla non violenza? E perché non dovrei proteggere i miei figli, e anche insegnare loro come difendersi, indipendentemente dal loro sesso?

E ancora: perché dare per assodato che le colpe di un uomo di 30 anni – e oltre – dipendano prima di tutto dall’educazione che gli hanno dato i suoi genitori (leggasi: la madre)? E perché pensare che noi millennials, nati fra il 1980 e il 1996 (cioè grossomodo chi è genitore di figli piccoli adesso) siamo vincolati a visioni arcaiche e sessiste dell’educazione dei figli?

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Sono nata negli anni ’80, e la mia educazione non è mai stata limitata dal fatto di essere femmina. Mia madre aveva una fastidiosa predilezione per i vestiti “unisex”, mi ha vietato la visione di «Non è la RAI» ed era riluttante a comprarmi le Barbie perché le considerava maschiliste. Né a me né a nessuna delle mie amichette è stato mai detto che avremmo dovuto sposarci e fare figli. Dovevamo andare bene a scuola e trovare un buon lavoro.

Le limitazioni che le donne della mia generazione hanno incontrato nel loro percorso di realizzazione personale e professionale non vengono dall’educazione familiare, se non in casi eccezionali. Figuriamoci se noi abbiamo voglia di riproporre cliché anni ’50 nell’educazione dei nostri figli.

Un’educazione davvero paritaria

Un’educazione paritaria è basata sulla persona, al di là del suo sesso. Valorizza i punti forti di ciascuno, incoraggia a rafforzarsi nei punti deboli, educa al rispetto di tutti. Non ha preconcetti, o è capace di riconsiderarli alla luce di nuove evidenze. Parte da ciò che il singolo bambino è, dalle sue inclinazioni, dai suoi gusti. Non dà per scontato che i maschi siano più “aggressivi” o più “fisici” o più “semplicioni” e nemmeno che le bambine abbiano bisogno di maggiore protezione o che siano più “pettegole” o dotate di maggiore senso pratico.

Si realizza meglio in contesti familiari dove la parità fra i generi è conclamata, non solo e non tanto perché papà e mamma fanno esattamente le stesse cose, ma perché entrambi stanno con i bambini, sono un esempio per loro, si rispettano a vicenda.

L’educazione per prevenire la “violenza di genere”, sia dal lato della “vittima” sia da quello del “carnefice”, non parte tanto dalla considerazione che «le donne non si toccano nemmeno con un fiore», ma da più lontano: dal rispetto dei confini corporei e del consenso, dalla capacità di gestire la frustrazione e la rabbia, dal riconoscere nell’altro una volontà a sé stante, nella consapevolezza di essere degni di amore.

Il paradosso del femminismo pop

Ora che il femminismo – di cui c’è sempre bisogno – è in tanti casi ridotto a frasette d’effetto per stimolare l’engagement dei follower (se non sapete di cosa sto parlando, meglio per voi), rischia di diventare un cumulo di banalità.

Diventa femminista, e un vanto per le mamme che si considerano tali, una bambina che schifa il rosa e non gioca alle principesse. Se una bambina è istruita a fare le faccende domestiche è una schiava del patriarcato. Di un bambino che passa lo straccio, invece, si dice: «Beata la mia futura nuora». Un bimbo che vuole fare il calciatore è un luogo comune, una bimba che vuole fare la calciatrice è progressista. Ho addirittura sentito madri vantarsi perché le figlie dichiarano di non amare i bambini e non volere avere figli.

Il paradosso è che attività tradizionalmente considerate femminili perché legate alla cura e all’accudimento vengono sistematicamente svilite, considerate meno importanti e prestigiose di quei lavori che a lungo tempo sono state appannaggio dei soli maschi. «Le bambine sono più sveglie dei maschi», si dice come frase fatta, mutuata dalle banali considerazioni sulle donne multitasking o genericamente migliori degli uomini. Girata al contrario, e cioè «I bambini sono più svegli delle femmine», suonerebbe inaccettabile, stereotipata.

Cose da maschio, cose da femmina

Qualche giorno fa giocavo con i bambini alle imitazioni degli animali. A un certo punto il mio bimbo più grande sosteneva che la sorella non potesse fare la parte del leone, perché è «un animale da maschi». Incuriosita, gli ho chiesto quali fossero gli animali «da femmine», mi ha risposto: «Le farfalle e le coccinelle».

Dopo una breve spiegazione di biologia (ci sono leoni e leonesse – purtroppo sul dimorfismo delle farfalle non sono altrettanto preparata) ho riflettuto su come certi schemi mentali vengano assorbiti a prescindere: dall’industria culturale e dell’intrattenimento, dalla scuola, dagli altri bambini e anche dalle famiglie. Gli animali più forti e aggressivi sono da maschi, quelli più graziosi e colorati da femmine. Mi sono anche chiesta se questo sia un male a prescindere e ho pensato che tutto sommato non è così.

Non è così finché la descrizione non diventa prescrizione: finché a una bambina non viene impedito di travestirsi da leonessa o da gorilla perché poco “femminile” o finché un bambino non viene deriso se fa la farfalla, o se porta i capelli più lunghi o se gli piacciono le bambole.

La questione delle cose “da femmina” e quelle “da maschio” pone l’accento sul bisogno che i bambini hanno di identificarsi in uno dei due generi, almeno a partire da una certa età (nella mia esperienza attorno ai 3, 4 anni). Sono generalmente orgogliosi di quello che sono e attenti agli aspetti esteriori che possono identificarli. Non vedo perché contrastare questo loro sentire, se non diventa occasione di discriminazione («no, questo le femmine non lo possono fare») o se non promuove atteggiamenti sbagliati («picchiarsi è da maschi»).

Immagino che le cose si complicheranno ancora con l’arrivo della preadolescenza e dell’adolescenza, e non ho risposte se sia giusto o meno comportarsi diversamente con un ragazzo o una ragazza. Penso di no, ma credo anche che possano avere problemi e necessità diverse. Intanto, ripensando alla frase iniziale, credo che la soluzione sia questa: educare e proteggere i propri bambini, indipendentemente dal loro sesso.

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