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Non siamo «viziate» né «madri-coraggio»: vogliamo solo il rispetto dei nostri diritti costituzionali

Articolo. «Ho chiesto aiuto e non l’ho ricevuto» dicono le tante donne che non si sono sentite supportate nel momento più delicato della loro vita: appena diventate madri. La retorica del «sacrificio» non serve più, serve combattere insieme per vedere riconosciuti i propri diritti

Lettura 4 min.
(foto KieferPix)

Non commento, per rispetto e per prudenza, il caso di cronaca del neonato morto all’ospedale Pertini di Roma mentre era in camera con la madre stremata dal parto. Dalle prime ricostruzioni, sembra che il piccolo sia rimasto soffocato dal corpo della madre che si è addormentata allattandolo, dopo avere chiesto invano che il piccolo fosse affidato al nido dell’ospedale perché troppo stanca per occuparsene, al termine di 17 ore di travaglio.

A investirmi emotivamente è stata l’ondata di testimonianze di donne che dicono tutte la stessa cosa: «Sarebbe potuto succedere anche a me, ho chiesto aiuto e non l’ho ricevuto».

Le testimonianze

In questi giorni – sui social, sui giornali, nei discorsi fra amiche – sono emerse le storie di innumerevoli donne che condividono il totale senso di abbandono vissuto dopo il parto (anche prima e durante, ma non allarghiamo troppo il discorso).

La frase di una mia amica – che, per inciso, non ha voluto figli – sintetizza tutto: «Dopo aver partorito sei come la carta di una caramella, non interessi più a nessuno». Questo è vero, per quanto non sia del tutto preciso: il corpo della madre interessa ancora, ma esclusivamente in funzione delle sue capacità di nutrice. Una volta che allatta e «tiene il bambino» senza disturbare gli altri è tutto a posto. Se non lo fa ha chiaramente qualcosa che non va. La colpa è sua: dopotutto fare un figlio è stata una sua scelta. Forse pensava che sarebbe stato come avere un bambolotto?

Attenzione a quello che desideri, potrebbe avverarsi

Quando sono nata, qualche decennio fa, mia madre scelse apposta l’ospedale in cui partorire perché all’epoca era l’unico della provincia in cui «ti lasciavano tenere il bambino in camera». Per la mia mamma era un grande progresso: un ospedale dove i suoi diritti e i suoi desideri venivano rispettati. Essere obbligate e consegnare il proprio neonato ad estranei per vederlo solo a orari prefissati è, in effetti, una forma di violenza.

Poi le cose sono cambiate e il cosiddetto rooming-in (tenere i piccoli in una culletta accanto al letto della madre) è diventato la regola. Il che va benissimo, se non fosse che da facoltativo è diventato obbligatorio. Questa come altre prassi desiderabili, vedi il contatto pelle-a-pelle subito dopo il parto e l’avvio precoce dell’allattamento al seno, sono ormai inderogabili. Fino alla pretesa che una madre, concluso il parto, sia subito pronta a prendersi cura del neonato, perché “naturalmente” predisposta a farlo, per il bene di tutti.

E così, quello che sembrava un percorso virtuoso e rispettoso di mamma e bambino si è tramutato in un’altra forma di violenza: rimanere prive di assistenza quando ne avremmo più bisogno.

Naturale non vuol dire nulla

Sulla parola naturale usata a sproposito per giustificare qualsiasi pretesa, nefandezza o stupidaggine si potrebbero scrivere libri interi. Ma non divaghiamo.

Al termine del mio primo parto – travaglio indotto e andato per le lunghe, niente epidurale, ossitocina in vena (niente di “grave” da un punto di vista medico, nemmeno lontanamente) – ero così stravolta da continuare a urlare, ben dopo che il bambino era nato. Non volevo nemmeno guardarlo, non ero in grado di tenerlo in braccio e ho chiesto (accontentata) di essere sedata. Mai, assolutamente mai, neanche con una pistola alla tempia, sarei stata in grado di prendermi cura di mio figlio.

Non sono certo l’unica. Chi, banalmente, ha subito un cesareo si trova a dover badare un neonato con una ferita aperta nell’addome, i punti che tirano e dolori lancinanti. È del tutto scontato che abbia bisogno di aiuto, eppure non è detto che lo riceva. Dopo il Covid gli orari di visita dei padri sono ridottissimi e il personale non è abbastanza per garantire assistenza continuativa.

Pretendere che una madre dopo un taglio cesareo sia in grado di alzarsi per cambiare un pannolino o prendere il bambino in braccio è come chiedere a chi ha appena subito un intervento chirurgico di mettersi a ballare la polka e preparare una lasagna: assurdo.

Lo stesso per chi ha avuto travagli molto lunghi, e magari non dorme letteralmente da giorni. Come si può affidare un fragile neonato a chi è allo stremo delle forze? È come esigere che un ultramaratoneta, appena tagliato il traguardo, si metta a fare esercizi a corpo libero in equilibrio sulla trave, pretendendo che non cada. Follia. Però sono richieste che alle madri vengono fatte, dandole per scontato e facendo sentire inadeguata chi non ce la fa.

Non ci interessano le wonder women

Ci sarà sempre quella che a un’ora dal taglio cesareo è già in piedi e culla il bambino con una mano mentre con l’altra telefona in ufficio per mettersi in pari col lavoro. Ci sarà sempre chi dopo un travaglio di 48 ore, trasfusioni, ventosa e lacerazioni commenta «non è poi niente di che» e torna il giorno dopo a casa per badare da sola ai suoi cinque figli. Ci sarà sempre chi, davanti a una madre in difficoltà, dirà: «Tutte storie, mia nonna ne ha fatti dieci lavorando nei campi».

Brave: applausi sinceri (soprattutto alla nonna). Però non ci interessa.

Non siamo tenute a diventare «eroiche» nel momento in cui mettiamo al mondo un figlio. Non siamo «deboli» se la nostra resistenza al dolore non è quella di un lottatore di wrestling. Non siamo «pigre» se dopo aver partorito vogliamo dormire. Non siamo «innaturali» se non ci riesce di allattare al seno. Non siamo «egoiste» se chiediamo che il bambino stia al nido per poter riprenderci dopo il parto.

Non dovremmo essere messe in condizioni di appellarci al buon cuore del personale sanitario. Nel nostro momento di massima fragilità la nostra integrità psicofisica va tutelata, esattamente come prevede il diritto alla salute, sancito dall’articolo 32 della Costituzione della Repubblica Italiana e dall’articolo 5 del Codice Civile. Non chiediamo di essere rispettate in quanto madri, ma in quanto persone autonome portatrici di diritti, a prescindere dal bambino che abbiamo dato alla luce.

La solitudine della puerpera

Il mio secondo parto è stato simile al primo, ma diverso: parto indotto, niente epidurale, travaglio lungo, lacerazioni importanti, ma sono riuscita a non perdere la testa. In compenso era il periodo del secondo lockdown e sono rimasta presto da sola.

Sola con la bambina in braccio per tre giorni e tre notti, tra il mio letto e la sua culletta, con la mascherina (che in teoria avrei dovuto tenere anche durante il travaglio), senza poter uscire dalla camera, vedendo il padre meno di un’ora al giorno, senza mai poter lasciare la bambina al nido (non era previsto, nemmeno l’ho chiesto). Ricordo ancora la mia compagna di stanza, esangue, piangere perché le avevano detto che il suo bimbo era piccolo e doveva attaccarlo al seno di più, colpevolizzandola perché non prendeva abbastanza peso.

È stato triste, ma ho dato per scontato che dovesse andare così, mi sono adeguata così come ci si adegua a cenare alle 18 o a dormire con la luce accesa. Non è andata male, fisicamente stavo benino, era il mio secondo bambino, allattavo senza problemi. Non ho subito le mancanze di rispetto, gli abusi e le violenze che in tante hanno descritto. Frasi orrende come: «Cosa credevi? Essere madri è sacrificio», «Il bambino è tuo, ci devi badare te», «Se non sei capace, come farai a casa?».

Una sola cosa mi frulla per la mente in questi giorni: dormivo con mia figlia nel letto con me, la tenevo attaccata ore intere. Nessuno del personale ospedaliero mi ha mai detto di non farlo. Sarebbe potuto succedere a me di soffocare la bambina nel sonno? Ho rischiato anch’io di essere «quella donna»?

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