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#bestof2023: Siamo davvero la peggiore generazione di genitori della Storia?

Articolo. Noi genitori non guadagniamo milioni come i giocatori di Serie A, ma siamo lo stesso sottoposti al giudizio collegiale dei tanti fantallenatori/fantagenitori, che saprebbero fare sicuramente molto meglio di noi. Non so se siamo la migliore o la peggiore generazione di genitori, ma di certo siamo quella più sotto pressione

Lettura 6 min.
(foto Dina Uretski)

Ci sono giorni che più che un genitore mi sento una concorrente di Masterchef: giudicata da chi ne sa senza dubbio più di me, davanti a una vasta platea di commentatori a sua volta pronta a rilevare i miei fallimenti, siano essi culinari o educativi. Ho la fortuna di un carattere abbastanza ruvido, per cui la sensazione dura poco. Però lasciate che ve lo dica: non è piacevole.

Non so se siamo la peggiore generazione di genitori (la più debole! Quella senza punti di riferimento) o la migliore (la più attenta, la più preparata, la più sensibile), ma di certo siamo quella più sotto pressione. Come non mi stanco mai di ricordare, siamo a 1.24 figli per donna. Tante persone scelgono, più che legittimamente, di non avere figli. Molte mie amiche non ne hanno, ad esempio.

Uno degli aspetti della denatalità è che avere bambini è una precisa scelta, e proprio perché è una scelta viene giudicata: non te l’ha ordinato il dottore di procreare, potevi pensarci prima, sei sicuro di potertelo permettere, di avere la giusta stabilità economica, mentale, lavorativa, relazionale eccetera?

E così ci sono sempre meno “giocatori” e sempre più “commentatori”, come quando durante i Mondiali (quando l’Italia partecipava) diventiamo tutti allenatori della Nazionale, anche se non abbiamo mai fatto un palleggio. E come ogni giocatore che sbaglia un passaggio viene definito «uno scarso viziato strapagato», così ogni genitore deve affrontare una sequela di luoghi comuni.

Il topos del genitore «che se ne frega»

Dietro ogni mancanza del bambino c’è un genitore «che se ne frega»: che non si sacrifica abbastanza, che non è attento, che non dialoga, che non dà il buon esempio. Fatemi dire una cosa a gran voce: le generazioni precedenti se ne fregavano molto, ma molto più di noi. Siamo noi che siamo abituati a mettere le esigenze dei bambini al centro, ma non è sempre stato così.

Pensate a come venivano trasportati i bambini in macchina: io (come tutti quelli della mia generazione, non è che i miei fossero snaturati) non ho mai posseduto un seggiolino auto e ho fatto interi viaggi nel sedile dietro, senza cintura. Ora non solo – giustamente – il seggiolino è obbligatorio, ma serve pure per legge un dispositivo che suona per avvisarti se hai lasciato il bambino in macchina (mi autodenuncio: non lo ho mai comprato).

È così per tutti gli aspetti della vita. Un tempo i bambini giocavano per strada o in cortile (senza cellulare, senza essere reperibili), ora anche lasciarli al parco davanti casa senza la supervisione di un adulto pare fantascienza. I genitori non si dedicavano più di tanto a giocare con i figli o a intrattenerli con attività educative. I bambini stavano con gli altri bambini (ce n’erano di più) e spesso i più grandi avevano la custodia dei più piccoli (ora sarebbe abbandono di minore). Chi aveva un qualche tipo di “problema” o particolarità – dislessia, autismo, iperattività o altro – era semplicemente un bambino difficile, svogliato, «asino».

Il topos delle due sberle, che non hanno mai fatto male a nessuno

Tipica espressione davanti a un bambino che “si comporta male”: «Ci vorrebbero due begli schiaffoni». seguito da «Ne ho presi tanti e non mi hanno fatto male» (non si direbbe). Ora, io non voglio drammatizzare, non pretendo che uno sculaccione sia equiparato per forza a violenza sui minori. Però è una cosa che non si fa. È come fischiare per strada a una bella donna, chiamare con appellativi ingiuriosi una persona omosessuale, non fare la raccolta differenziata: comportamenti un tempo ritenuti normali e accettabili, ma che non lo sono più.

Spiace per i fautori dei bei tempi andati, ma se mio figlio fa un capriccio al supermercato non lo prendo a sberle, esattamente come non prendo a sberle l’automobilista che non mi dà la precedenza o l’impiegato cafone alle Poste. Nel consesso civile la violenza non si usa e basta. Soprattutto non si usa con chi è più debole di noi, perché è abbastanza spregevole.

Il topos del genitore «che non sa farsi rispettare» (h4)

«E ma allora ti fai mettere i piedi in testa». Lasciate che vi riveli un segreto: se un bambino fa un capriccio al supermercato perché vuole le caramelle la cosa più semplice, per non farlo «disturbare», è proprio comprargli le caramelle. Se un genitore non vuole «farsi mettere i piedi in testa», e quindi non cede, può essere che il bambino pianga e faccia una scenata. Sarebbe un peccato se, per non sentirsi oggetto di riprovazione, il genitore finisse per mettere in carrello i bonbon.

Mantenendo le buone abitudini, auspicabilmente il bambino si comporterà meglio, ma non è un processo lineare o esente da crisi. Educare è difficile, più di un Pressure Test a Masterchef. Ci sono i passi falsi e le giornate no.

Già che ci siamo, ecco un altro segreto: davanti a un bambino che «si comporta male» chi ci patisce di più è il genitore, a meno che non sia un’ameba. Si sente, nell’ordine: frustrato, imbarazzato, dispiaciuto, preoccupato, angosciato, in colpa, furente e pieno di dubbi. Quindi, più che giudicare, è possibile cercare di fare finta di niente, dare timidi segnali di comprensione e incoraggiamento, provare (se uno ne ha voglia e se la sente) a distrarre il bambino.

Il topos del pedagogista che ti spiega la vita

L’altro giorno scorrendo il feed di Instagram mi imbatto nel monologo di questo famoso psicoterapeuta, che racconta sdegnato della Bambina A, messa a letto dagli adulti, contrapponendole il virtuoso esempio della Bambina B, cui viene detto di prepararsi per la notte e lavarsi i denti da sola, a costo di infilarsi la maglia del pigiama a rovescio. Applausi alla seconda. Ha ragione, la teoria la conosciamo tutti: l’importanza di coltivare l’autonomia, le abilità pratiche. Ma perché l’opzione è sempre fra A – figlio manchevole di genitore inetto e B – figlio in gamba di genitore altrettanto in gamba?

Penso a mio figlio di cinque anni, quando si deve mettere il pigiama: se lo sa infilare, più o meno, ma ha paura di sbagliare, mi chiede se l’ha messo dal verso giusto, poi si lamenta che l’etichetta non va dove vuole lui, altre sere non ha voglia di cambiarsi, e devo ripeterglielo una decina di volte. Vorrei il pedagogista fianco a fianco con me per discutere di come affrontare la situazione, concretamente, un passo alla volta. Già che ci siamo lo farei parlare col nostro dentista che, anche se mio figlio si lava bene i denti da solo (ha il terrore delle carie) mi ha detto che ogni tanto devo ripassarglieli io con lo spazzolino, per essere sicura siano tutti puliti.

Tutti sanno cosa è giusto e cosa è sbagliato e hanno pareri inequivocabili (anche contradditori fra loro), prima di sporcarsi le mani con la realtà. Che è sempre più complessa, vischiosa, incerta e imprevedibile della teoria.

Seguo sui social un altro anziano pedagogista che mi sembra bravo, se per bravo significa che spesso sono d’accordo con lui. Fino al giorno in cui scrive che i bambini di oggi dormono troppo poco, che un bambino di 3 anni deve assolutamente fare il riposino. Penso a mio figlio durante il suo primo anno di scuola dell’infanzia: pisolino obbligatorio, anche se lui non voleva. Il risultato è che a casa andava a letto alle undici di sera pur svegliandosi alle 8 del mattino, un incubo per tutti. È difficile accettare che i bambini, esattamente come gli adulti, non siano tutti uguali? Anch’io detestavo il riposino da piccola, altri lo hanno sempre amato.

Il topos del genitore «che sa come si fa»

Spesso gli educatori dimenticano che i bambini non sono tutti uguali e non hanno le stesse difficoltà. C’è il buonsenso, ci sono linee guida e traguardi da raggiungere per tutti, ma la strada è diversa, per alcuni lineare e per altri no. Il peggio è quando chi ha avuto una strada lineare vuole mettersi in cattedra.

I miei figli non vogliono mai andare a dormire. Ho letto tutti i consigli del caso: creare una routine, niente tv dopo cena, oggetti di transizione (quello che un tempo si chiamava orsetto di peluche). La teoria la so. In pratica non mi riesce, mi stresso ogni sera e sentire il pedagogista che dice «Alle 21 tutti a nanna» o il genitore modello affermare «Non gli ho mai dato scelta» non è di particolare aiuto. È colpa mia? Forse in parte: potrei essere più impositiva, più ferrea negli orari. Resta il fatto che quando a casa di amici vedo i loro figli annunciare che hanno sonno e andare a letto da soli, e a me sembra un miraggio assoluto.

In compenso i miei bambini mangiano, senza problemi, qualsiasi cosa, broccoli compresi. È un mio merito? Potrei vantarmi della mia cucina salutistica (la dispensa mi smentisce) ma la verità è che se mio figlio mangia i cavoletti di Bruxelles e finisce tutto il piatto di pasta è perché gli va. Ho figli di amici per cui mangiare è un tormento, e i loro genitori non hanno disturbi alimentari e cucinano normalmente. Sbagliano lo stesso qualcosa? Forse sì, ma fanno del loro meglio.

Ecco un ultimo segreto: facciamo tutti del nostro meglio, come tutti i genitori fin dall’alba dei tempi. Magari il nostro meglio non è abbastanza, ma già solo il fatto di porsi la questione significa non essere completamente disfunzionali. Perciò scambiamoci trucchi e consigli, facciamoci forza a vicenda, mettiamoci in discussione, cerchiamo di cooperare e aiutarci. Silenziamo i gufi, ignoriamo le occhiate storte e i giudizi taglienti.