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Cecco del Caravaggio. La nuda veritas dell’allievo modello

Articolo. Intrigante, irregolare, misterioso, audace e non ultimo inedito visto che fino ad oggi era praticamente uno sconosciuto: Cecco del Caravaggio ha tutti gli ingredienti giusti per giustificare il successo della prima mostra che gli sia mai stata dedicata, a cura di Gianni Papi e M. Cristina Rodeschini e visitabile fino al 4 giugno all’Accademia Carrara

Lettura 4 min.
Caravaggio, «David con la testa di Golia», Roma, Galleria Borghese (Foto Mauro Coen)

Un’importante cambio della guardia all’interno della mostra è ora l’occasione per un’incursione su un aspetto peculiare, spesso frainteso dall’immaginario collettivo ma che si scopre centrale nel processo creativo, in primis nel caso di Caravaggio: il rapporto tra l’artista e il suo modello.

Nelle sale della Carrara, infatti, dal prossimo 29 marzo il sensuale «San Giovanni Battista della Capitolina» lascia il posto a un altro celebre capolavoro di Caravaggio per cui posò il fedele Cecco: il dolente «David con la testa di Golia» della Galleria Borghese.

La vita con Caravaggio: un’esperienza totalizzante

Ripartiamo dal titolo della mostra, «L’allievo modello», per rileggere il rapporto tra Cecco e il Merisi. In primo luogo l’alunnato, che vede Cecco seguire probabilmente lo stesso iter del suo maestro. Risale al 1584 il contratto in base al quale il dodicenne Michelangelo Merisi entrava come apprendista nella bottega di Simone Peterzano, il quale, in cambio di ventiquattro scudi d’oro l’anno, si impegnava a fornirgli per quattro anni vitto e alloggio, e a insegnargli il mestiere di pittore. Secondo il costume dell’epoca, infatti, l’apprendista pittore diventava per anni “famiglio” del maestro, ossia conviveva con lui e aiutava in tutte le incombenze.

È probabile che il giovane Francesco Boneri, oggi ricondotto ad origini bergamasche, abbia seguito lo stesso percorso alla volta di Roma, dove diventerà Cecco del Caravaggio. Non sappiamo con certezza quando entrò nella ristretta schola del Merisi, ma i pochi indizi delle fonti ci dicono molto del legame che si instaurò col maestro. Se nel 1605 «Francesco Garzone» è già citato come abitante con Caravaggio nella casa di vicolo San Biagio, intorno al 1650 è un appunto nel diario del viaggiatore inglese a Roma, Richard Symonds, a svelarci non solo che il modello dell’«Amore vincitore» oggi a Berlino non era altri che Cecco, ma anche che era soprannominato «del Caravaggio» in nome dello strettissimo legame che lo univa al Merisi, anche perché «was his boy».

Nello stesso anno, Jacomo Manilli si occupa proprio del «David con la testa di Golia» Borghese, identificando nella testa di Golia l’autoritratto di Caravaggio e nel volto di David quello del «suo caravaggino». Gianni Papi, del resto, sottolinea come l’apprendistato del giovane pittore presso il Merisi dovesse essere tutt’altro che tradizionale: «I giovani pittori, come Cecco, imparavano a dipingere stando con lui e dividendo con lui esperienze di vita e esperienze artistiche, senza che Merisi insegnasse. Non c’era alcun metodo, al di là di quella esperienza estrema che prevedeva l’esecuzione di un’opera senza tappe preparatorie, bastava aggredire direttamente la tela, tracciando un abbozzo col pennello e avendo sempre davanti la presenza fisica del modello. E Cecco passava da modello a garzone, da compagno di letto ad apprendista pittore, senza soluzione di continuità e di ruoli».

Cecco posa per almeno sei dipinti del Merisi, ma la staffetta in mostra tra il «San Giovanni Battista» della Capitolina e il «David con la testa di Golia» della Galleria Borghese, porta il segno di una svolta esistenziale. Il primo dipinto è un trionfo dell’amore della bellezza e della giovinezza: «Quegli anni sono per Caravaggio gli anni del successo, dell’affermazione definitiva, ma anche quelli in cui Cecco entra nella vita del Merisi – prosegue Papi – Io credo che il San Giovanni capitolino sia l’esempio, l’emblema di quel legame, di quel breve tempo vissuto con insperata quiete e forse gioia, prima che si affaccino nella vita del pittore processi, odi, risse, contrasti e, alla fine, anche un omicidio».

Nel quadro Borghese invece, evidentemente eseguito nei mesi successivi alla fuga da Roma, avanza il buio e i volti di David- Cecco e di Caravaggio-Golia sono trasfigurati dalla sofferenza: «Dovevano essere molti i pensieri che tormentavano Merisi (peraltro ferito), che con ogni probabilità era già stato avvisato della condanna al bando capitale e che vedeva chiusa ogni possibilità di tornare a Roma, ai suoi committenti e al successo… Nel quadro insinua prepotentemente la biografia (e l’autobiografia) dei due personaggi raffigurati. Quel legame – fra Caravaggio e Cecco – trova proprio in questo quadro una dichiarazione estrema, nel dolore e nello smarrimento di un tempo incerto di futuro».

Cecco, molto più che un modello

Il caso di Cecco ribalta in un solo colpo alcuni cliché dell’immaginario collettivo, che vuole la storia dell’arte popolata di modelli costretti a subire e ad assecondare, con grande sforzo fisico e psicologico, le sedute di posa imposte dall’artista il quale, per giunta, finirà per privarli della loro identità, consegnandone nell’opera un’immagine del tutto anonima. Lo status di Cecco – allievo, modello e amante di Caravaggio – ci ricorda, invece, come quello del modello sia un ruolo centrale in ogni processo creativo che si confronti a vario titolo con la figura umana. Posto che l’atto del guardare, per sua natura, non è mai un’esperienza neutra, perché scandalizzarci – noi, figli del nostro tempo - che nel corpo nudo di Cecco sia chiaramente leggibile una componente ammiccante?

Del resto quello tra Caravaggio e Cecco non è né il primo né l’ultimo caso nella storia dell’arte che vede il sovrapporsi di rapporti professionali e amorosi. Il legame tra Amanda Lear e Salvador Dalì, ad esempio, è tra i più noti alla cronaca, ed è la stessa Lear che nel libro «La mia vita con Dalì» ha descritto chiaramente il sottinteso alle sedute di posa con il pittore: «Nella stanza era stato sistemato per i suoi modelli una specie di piedistallo di plexiglas trasparente. Ve li faceva salire sopra, mentre lui si sedeva sotto, il che li faceva sembrare più bassi e come sospesi a mezz’aria. Dal momento che i modelli erano nudi, poteva agevolmente esaminare i loro più intimi dettagli anatomici. Cominciavo a chiedermi se anch’io sarei stata oggetto del suo voyeurismo o se intendeva veramente ritrarmi. Sapevo benissimo che le sue sedute di posa spesso non erano altro che una scusa per spogliare un ragazzo o una ragazza».

Non meno attraversate da implicazioni di natura erotica erano le sedute di posa di Man Ray con la celebre modella Kiki de Montparnasse, poi diventata la sua compagna: «Kiki finalmente si decise: prendemmo appuntamento e venne a posare per me – racconta il fotografo in “Autoritratto” – Non avevo più guardato un nudo con l’occhio spassionato del pittore dai tempi in cui ero studente, ammesso che l’avessi fatto anche allora. Quel giorno ero nervoso ed eccitato, e mi chiedevo se sarei riuscito a mantenere il mio sangue freddo. […] Le feci assumere varie pose, concentrandomi soprattutto sulla testa; poi rinunciai al lavoro. Mi stava succedendo esattamente come ai tempi del corso di nudo: la mente divagava, strane idee mi impedivano di concentrarmi. Le dissi di rivestirsi e ce ne andammo al caffè».

E che dire del rapporto profondo, esistenziale, tra Andy Warhol e la sua «Factory girl» (per rubare il titolo al celebre film di George Hickenloorer del 2006) Edie Sedgwick, la più bella ma anche la più fragile delle sue muse, quella che tentò invano di aiutare nei momenti più bui, prima che si spegnesse, per quel male di vivere, a soli 28 anni?

Un filo rosso di implicazioni nel rapporto tra l’artista e il suo modello unisce dunque Caravaggio all’arte contemporanea, approdando alla body art dove il corpo del modello diventa parte integrante della performance. Così era nelle «Antropometrie» di Yves Klein, criticato per il suo trasformare i corpi nudi delle modelle in pennelli viventi, in azione di fronte a un pubblico. Eppure una delle sue “modelle”, la torinese Elena Palumbo Mosca, ha dichiarato: «Guardavo quello che stava accadendo, che stavo facendo, e pensavo che fosse davvero interessante e che ero fortunata a partecipare a questa esperienza». E così, in fondo, è anche nella nuda veritas che Vanessa Beecroft chiede alle sue modelle.

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