Scriveva Baudelaire: “Esiste una cosa di gran lunga più pericolosa del borghese, ed è l’artista-borghese, che è stato creato per interporsi tra il pubblico e il genio, nascondendoli l’uno all’altro”.
In epoca di crisi, di conflitti, di grandi esodi e di ritorno dei nazionalismi, ci sono artisti che scelgono di fare lo struzzo e di ripiegarsi su loro stessi, mentre altri decidono di mettere a nudo i meccanismi perversi che dividono il mondo tra sommersi e salvati, dando voce ai primi e chiamando i secondi alle loro responsabilità. Perché come dice uno di loro, l’artista cinese Ai Weiwei, “l’informazione libera offerta a tutti è l’arte di oggi”.
“Fa’ la cosa giusta” è il tema, rubato ad uno dei migliori film di Spike Lee, del ciclo di incontri “Arte contemporanea per principianti e perplessi” che dal 28 ottobre al 25 novembre al Museo Bernareggi accompagna il pubblico alla scoperta di cinque grandi artisti per i quali l’arte significa prendere posizione.
Abbiamo chiesto alla curatrice del corso, Giovanna Brambilla, di presentarceli.
Chi sono i big five?
I big five sono come quei grandi animali, potenti nella nostra fantasia, di cui non capiamo la portata fino a quando, come capita in un safari, non li incontriamo. Ecco cosa sono i cinque artisti scelti quest’anno per il corso: cinque bussole per orientarsi in un’esistenza che sembra spietata e dove l’arte, in qualche modo, fa luce, segna un confine di resistenza, di severità, di poesia.
Emblemi della postmodernità, dello smascheramento delle ideologie al potere, questi cinque artisti hanno molti punti in cui si intrecciano, in cui sembrano passarsi il testimone.
Di cosa parlano?
Gonzalez Torres parla di amore e di dono, Santiago Sierra dei crudeli meccanismi del potere e di come smascherarli, Ai Weiwei conduce una guerriglia contro la censura e l’oblio, Boltanski ha a cuore la memoria e la necessità del ricordo, e infine Adrian Paci recupera il senso della collettività, da cui si è esclusi e in cui si vorrebbe essere inclusi.
Perché loro?
Per sette diverse ragioni:
1. Hanno scelto di essere interpreti del proprio tempo non ricercando esclusivamente delle raffinate soluzioni formali (che è pure un filone legittimo dell’arte), ma di costruire un nuovo sguardo sulle cose, quando e laddove queste non vanno.
2. Mettono la loro esistenza e sensibilità al servizio degli altri, passando dal particolare all’universale.
3. Sono stati censurati e contestati, perché è ovvio che qualcuno si infastidisca quando l’arte non si limita ad un enunciato estetico, funzionale o filosofico, ma va ad attaccare come un mastino alle reni della società contemporanea.
E di solito a infastidirsi sono le persone che normalmente si disinteressano dell’arte contemporanea, perché la reputano innocua: persone di potere, sindaci, deputati, amministratori si sono sentiti chiamati in causa da opere di cui fino a un attimo prima non conoscevano nemmeno l’esistenza.
4. Sono artisti nomadi, come nomade è la contemporaneità. Hanno avuto il coraggio di vedere altri luoghi e altre idee, di lavorare site specific prendendo coscienza di situazioni che si svolgono in altri Paesi.
Basti pensare a opere come l’installazione permanente di Christian Boltanski che al Museo per la Memoria di Ustica di Bologna circonda il relitto del DC9, o al lavoro “I can’t” in cui Adrian Paci affianca alla lettera pre-elettorale (ricevuta da milioni di italiani) in cui con tono amicale Silvio Berlusconi invitava a votarlo la sua semplice risposta “I can’t”, “non posso”, visto che Paci non aveva la cittadinanza italiana.
5. Estrema semplicità dei mezzi ma massimo impatto del risultato.
6. Hanno bisogno dello spettatore. Nell’arte minimal l’osservatore non è necessario e al massimo è testimone di qualcosa che non lo coinvolge, mentre questi artisti chiedono una sua testimonianza reale, che completa con la sua presenza l’opera portandone i riflessi nel mondo, nella vita, nella sua coscienza.
7. Elaborano opere incredibilmente raffinate e geniali, di grande impatto visivo, godibili anche esclusivamente sul fronte estetico. Cosa che spiazza perché ti porta dove non pensi che ti porterebbe.
I cinque incontri
28 ottobre - “Innamorati, mancanze e testimoni”, Félix González-Torres
Félix González-Torres ha avuto la capacità di piegare le forme asettiche del minimalismo a una pregnanza poetica, elegiaca e drammatica di emozioni che parlano di necessità del ricordo, della fragilità della memoria e della fotografia come strumento che, nel momento in cui ti consegna qualcosa, lo fa perchè l’hai perduto.
4 novembre - “Le mie ragioni, le mie prigioni, le mie irruzioni”, Ai Weiwei
Ai Weiwei è l’unico che è stato incarcerato e picchiato dalla polizia; l’unico per il quale la collettività è insorta facendo una colletta per pagare una multa che gli era stata ingiustamente inflitta.
Parlano per lui lavori come quello in cui l’artista posa sulla spiaggia di Lesbo esattamente come il bambino siriano Aylan al-Kurdi nella foto che ha sconvolto il mondo intero, o l’opera in cui brandizza un antico vaso cinese con la scritta Coca Cola, alludendo a un governo che divora la storia e la cancella.
11 novembre - “Società colpevoli, uomini complici, vittime silenziose”, Santiago Sierra
Madrileno, Santiago Sierra sceglie di vivere a Città del Messico proprio perché è uno luoghi più contraddittori del pianeta, tra violenza, corruzione, immobilità sociale. Sceglie di essere nel nocciolo di una centrale nucleare.
Il suo è il lavoro che forse mette più in imbarazzo lo spettatore: paga persone a tariffa sindacale per fare azioni che ci mettono in difficoltà. Ma a chi lavora non interessa perché viene retribuito. Come a dirci, “ti fai un problema di falsa dignità invece di affrontare il problema reale”. Il lavoro è visto come schiavitù e l’assenza di umanità.
Nel 2018 presenta alla fiera Arco di Madrid un lavoro in cui sfilano i volti pixelati di persone incarcerate dopo i moti di indipendenza della catalogna. La censura è potentissima e il lavoro viene immediatamente rimosso.
18 novembre - “ La morte, la memoria e il cuore”, Christian Boltanski
Il lavoro di Christian Boltanski è segnato da una grande attenzione alle tematiche universali, all’importanza sia della vita che della morte. Protagonisti sono gli altri che soffrono e meritano essere ricordati, ma non in modo luttuoso.
In una delle sue installazioni più potenti al Grand Palais di Parigi presenta mucchi di vestiti usati, con una gru che li solleva e una colonna sonora fatta di battiti del cuore, in una potente rievocazione dei campi di sterminio.
È l’artista degli “Archivi del cuore”, che raccoglie in tutto il mondo le registrazioni delle pulsazioni e le archivia sull’isola giapponese di Teshima, perché ne resti memoria.
25 novembre - “ Vivere, transitare e ricordare”, Adrian Paci
Adrian Paci viene dall’Albania ma a Bergamo ha trovato un luogo dove stare e produrre. Ha studiato a Stezzano ed è stato docente all’Accademia Carrara di Belle Arti.
Ci piaceva l’idea di non pensare che i grandi artisti siano tutti oltrecortina. Anche perché è facile farsi prendere quando gli artisti che affrontano queste tematiche non sono vicini a noi. I suoi temi sono l’eredità del passato e come accettarla nel presente, dagli antichi riti funebri albanesi ai ricordi di guerra, così come la relazione con le persone. Un esempio? Lo straordinario video in cui dei migranti salgono sulla scaletta di un aereo per scoprire che l’aereo non c’è. Oppure quella piazza di Scutari in cui l’artista è pronto a stringere la mano a chiunque si presenti. E si presenta una folla inaudita di gente che trova ancora un senso in un gesto primordiale come quello di darsi la mano.