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L’arte contemporanea nell’eterna battaglia tra “lo potevo fare anch’io” e “sono io che non capisco”

Articolo. La XV Giornata del Contemporaneo della Amaci del 12 ottobre diventa l’occasione per rileggere il nostro complesso rapporto con movimenti e opere del presente

Lettura 4 min.

Mostre, incontri, porte aperte nei musei e negli studi d’artista: AMACI – l’Associazione dei Musei d’Arte Contemporanea italiani, che ha sede proprio presso la nostra GAMeC, ha scelto sabato 12 ottobre per la quindicesima Giornata del Contemporaneo, la manifestazione organizzata ogni anno per portare l’arte del nostro tempo dritta incontro al grande pubblico.
Porte aperte dunque, in modo rigorosamente gratuito, per i ventiquattro musei Amaci e per un migliaio di spazi pubblici e privati in tutta Italia, con un ricco programma di iniziative.
Anche a Bergamo i visitatori potranno tracciare un personale itinerario alla scoperta dell’arte contemporanea, tra musei, gallerie, atelier d’artista.
L’immagine simbolo di questa edizione della rassegna è la rielaborazione di un frame tratto dal video “Legenda” di Eva Marisaldi. Una sala cinematografica popolata di uomini-sassi, a denunciare un eccesso di comunicazione che annulla la comunicazione. Problema centratissimo, ma non è questa l’unica questione aperta per quanto riguarda l’arte contemporanea.

Questo matrimonio non s’ha proprio da fare?

Perché da quindici anni si sente la necessità di una festa nazionale dedicata all’arte contemporanea? E perché non esiste anche una Giornata dell’arte antica? Non bastava la campagna delle domeniche gratis al museo? E poi, in fondo, il più delle volte non si tratta di un calendario di iniziative pensate ad hoc, ma di un semplice “porte aperte” di mostre e musei che magari abbiamo già visitato.
La verità è che la gratuità e l’apertura in contemporanea di tante realtà, pubbliche e private, nasce da un’altra, profonda necessità: far avvicinare il grande pubblico all’arte contemporanea, alla ricerca di quella scintilla d’amore che di fatto non è ancora scoccata.

Il cosiddetto “grande pubblico” è ancora diffidente nei confronti di un ambito che percepisce come incomprensibile e talvolta ingannevole, oppure come una dimensione misteriosa riservata alla comprensione di pochi eletti. Ciò accade nonostante l’impegno di critici e curatori, i tanti libri scritti per spiegarla in modo semplice e allegro, la profusione di conferenze e visite guidate e l’ammirevole impegno dei servizi educativi dei musei nel coinvolgere le scuole.
Non è arte”, “Questo lo potevo fare anch’io!”, “Forse sono io che non capisco”, “È tutta una montatura”: questi sono ancora gli “aforismi” più diffusi. E di fronte a un taglio di Fontana non siamo poi così lontani dalla situazione immortalata da Aldo Giovanni e Giacomo in visita al museo d’arte moderna:

Eppure i critici si sperticano per dimostrarci che siamo di fronte a dei capolavori, gli artistar fanno notizia e i collezionisti spendono cifre da capogiro per aggiudicarsi un dvd di videoarte (per indimenticabili serate in famiglia, accoccolati sul divano di casa). Senza dimenticare il trend “Arreda con l’arte contemporanea e trasforma la tua casa in una piccola galleria”. Di questo passo, se vuoi davvero impressionare i tuoi ospiti, appoggia con nochalance una costosissima scatoletta di “Merda d’artista” sulla mensola della cucina e decora con un colorato “Balloon Rabbit” di Jeff Koons la cameretta del bambino.

Ma torniamo seri. Va per la maggiore consigliare agli scettici irriducibili nei confronti della creatività contemporanea, la lettura di “Lo potevo fare anch’io. Perché l’arte contemporanea è davvero arte” di Francesco Bonami (Mondadori, 2009). Il critico e curatore, noto ai più per aver curato la Biennale di Venezia del 2003, prova a spiegare in modo agile e semplice ai non addetti ai lavori o, a come li chiama lui, i “distratti ai lavori”, come abbattere i pregiudizi. Al tormentone “Lo potevo fare anch’io”, la risposta di Bonami è semplice: no, perché l’idea non l’hai avuta per primo. “L’importante – scrive – è pensare, in ogni caso e possibilmente prima degli altri, la cosa giusta al momento giusto”. Argomentazioni semplici, dirette, persino divertenti. Il volume resta dunque consigliatissimo, ma la sostanza dell’arte contemporanea può davvero essere ridotta a una questione di tempistica?

La verità è che quel disagio che ci capita di provare ci conduce anche ad altro. Ci aiuta a capirlo un volume certamente meno virale, ma interessante: “Sono io che non capisco. Riflessioni sull’arte contemporanea di un obiettore alla crescita” (Edizioni per la decrescita felice, 2013) di Maurizio Pallante. L’equazione è immediata: arte contemporanea = società del presente. E l’autore si chiede: ma quando il concetto di nuovo è diventato un valore assoluto? Da quando il nuovo non è quello che viene dopo ma è per definizione migliore di quello che viene prima? Risposta: da quando la nostra vita è scandita dal “tempo del consumo”.

Da qui deriva anche il legame strettissimo tra il mondo dell’arte contemporanea e gli interessi economici del mercato, l’aspetto che più alimenta le dietrologie del pubblico in visita alle mostre di arte contemporanea: “La vittoria culturale della lobby dell’arte contemporanea – scrive Pallante – non si misura col consenso di coloro che danno a vedere di apprezzare le opere esposte nei suoi musei, bensì con l’umile rassegnazione di coloro che li frequentano per non apparire retrogradi e parrucconi, anche se non riescono a vedere nulla di ciò che vedono, nonostante l’impegno che ci mettono, e tra sé e sé, senza esternarlo per non fare la figura degli idioti, si dicono ‘sono io che non capisco’. Non sono nemmeno sfiorati dal dubbio che non ci sia niente da capire oltre la speculazione finanziaria in corso”.

Proviamo a pensare che la verità stia, come spesso accade, nel buon senso. Fidiamoci del nostro intuito e delle nostre sensazioni ma sforzandoci di informarci un po’ di più prima di emettere sentenze. Non si diventa amici se prima non ci si conosce almeno un po’.

Un piccolo, semplice corredo che finalmente ci liberi dal timore di apparire retrogradi e ignoranti se di fronte a un’opera contemporanea affermiamo, senza abbassare la voce, che ci dice qualcosa o che non ci dice proprio nulla.

Forse ha ragione Bonami quando chiama in soccorso la metafora della cucina: “L’arte è come il cibo, nessuno dice ‘non me ne intendo’ quando va al ristorante. È il cibo dell’anima e della mente: dopotutto si mangia anche per piacere, non solo per sopravvivere. Gusterete l’arte come mangiate la pasta, senza pensarci tanto, criticando quella scotta e apprezzando quella al dente. L’arte contemporanea è l’arte più fresca, quella freschissima. Per gustarla bisogna essere pronti a dei sapori nuovi, come quando si viaggia all’estero e si sperimentano piatti sconosciuti, come le unghie di topo al tegame in Laos”.

www.amaci.org