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Nei quadri di Vittorio Consonni, dove deflagra la materia

Articolo. Fino al 31 marzo, la mostra dell’artista outsider di Petosino, organizzata da Ferretti Casa all’ex Italcementi di via Camozzi a Bergamo. “Per me la pittura all’inizio è stata una terapia, perché avevo vari problemi di salute e dipingere mi aiutava. Oggi la pittura è un modo di vivere, è la mia vita. Quando ho dei problemi nella mia pittura si sente e voglio che si senta”

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Senza titolo, Vittorio Consonni

Lo spazio è quello dell’ex Italcementi in via Camozzi a Bergamo, dismesso dal 2016 ma tutt’altro che in disfacimento. Si sente ancora l’eco del lavoro impiegatizio, le macchine da scrivere, i computer, le stampanti ad aghi con i fogli bucati ai due lati. Il pavimento di linoleum azzurro, in certi uffici il parquet, in altri delle piastrelle a lisca di pesce color ocra sbiadito. E poi una sala che accoglie i visitatori e un lungo corridoio con tanti stanzini. Sembra di essere in un racconto di Buzzati, invece è il luogo dove si tiene la mostra “Gli Artefatti e la memoria nelle sue mutazioni” di Vittorio Consonni, organizzata da Ferretti Casa nell’ambito di un progetto di valorizzazione di spazi industriali in disuso attraverso l’arte contemporanea bergamasca (fino al 31 marzo; venerdì, sabato e domenica ore 10-17, ingresso libero; durante la settimana la mostra sarà accessibile a scuole e gruppi, con una visita guidata curata da Vittorio Consonni: prenotazioni qua).

Se non fosse perché è lì all’entrata, vagamente dinoccolato, gli occhiali da vista che si scuriscono con la luce, riservato per non dire dimesso nel parlare, non penseresti mai che sia lui Vittorio Consonni. Non solo perché, per la sua peculiarità da vero outsider (classe ’56 da Petosino), te lo immagineresti un po’ orso (prima di questa le personali si contano sulle dita di una mano). Ma anche perché i suoi quadri (50 opere per un percorso di 23 sale) sono tutt’altro che pacificati, raccontano la drammaticità del dolore. Un senso del tragico in forma di meditazione. Fatto di colori, materia e rovina.

Quando parla però tutto si riannoda: “Sono stato un operaio alla Gres prima, e all’Italcementi poi. Un’esperienza che ha sicuramente influito sulla mia pittura, soprattutto quando le fabbriche sono state lasciate al tempo che passava. Tutt’oggi, che sono in pensione dopo 38 anni di lavoro, ho il mio studio a Petosino, in una casa colonica che mi diede la Gres”. In alcuni uffici della Gres, “ma anche in questi dell’Italcementi”, c’erano i suoi quadri, che ora è come se tornassero a casa, ma in una casa ormai vuota, senza scrivanie, senza persone. Con le canaline dell’elettricità ancora visibili e funzionanti. Una casa silenziosa dove detonano i suoi quadri.

A me piace molto lavorare, lavorare. Non ho mai cercato certi agganci. Mi piace stare solo nel mio ambiente, dove porto avanti le mie ricerche”. Lavorare, lo dice due volte, come se dipingere fosse una missione e nient’altro: “Per me la pittura all’inizio è stata una terapia, perché avevo vari problemi di salute e dipingere mi aiutava. Oggi la pittura è un modo di vivere, è la mia vita. Quando ho dei problemi nella mia pittura si sente e voglio che si senta. Voglio togliere ciò che è dentro di me per lasciarlo sopra la tela, il colore, la materia”.

Volendo affibbiare un’etichetta alle opere di Consonni, potremmo dire espressionismo astratto, in quel grande calderone novecentesco che è l’Informale, “ma è una definizione in cui non mi ci trovo particolarmente. Quando dipingo cerco sempre la figura, che sia di un essere umano o altro”. Ed è la figura, mai ferma, mai “estetizzata”, che sembra deflagrare, sanguinare, addirittura fare rumore. Un rumore al contempo cosmico e interiore che non asseconda mai chi guarda, ma cerca un dialogo, “e se questo dialogo non si avvera può essere che sia la tela a non comunicare. Per me comunicare con chi guarda un mio quadro, avere la sua partecipazione, è importantissimo”.

Colano rossi accesi come da ferite nei quadri di Consonni, azzurro-verdi onirici di provenienza subcoscienziale, concrezioni di materia che sembrano uscire dalla tela. Colori ad olio, a volte mischiato ad olio di lino, tempera e catrame. Un materiale non nuovo in ambito artistico, ma che per Consonni “ha una materialità intensa, che risponde al mio bisogno di lavorare sulla tela direttamente con le mani, per sentire la materia sotto le dita. Il catrame è uno dei materiali più sensibili, diluito o impastato ha una sensibilità che altri colori non hanno”.

“Come dipingerebbe, oggi, chi volesse essere artista senza aver avuto nessuna contezza del sistema dell’arte, del mercato, della storia? Come evolverebbe il suo lavoro in vent’anni di ’studio matto e disperatissimo’, volutamente isolato dal resto del mondo?”: così nel 2012 Marco Meneguzzo si interrogava in merito al “caso” di Vittorio Consonni, che negli anni Ottanta ha lavorato con Pietro Urbani, Calisto Gritti e dal 1980 al 1991 con il pittore Mario Cornali, iniziando un lungo tirocinio di figurazione e composizione.

La risposta è in ciascuna delle tele, dei tappeti, delle tovaglie, delle lenzuola su cui Consonni dipinge la propria galassia interiore, un’emotività che cerca un oltre non detto, che forse non è per tutti: “Ferretti sta cercando di organizzare delle visite guidate, in particolare con ragazzi affetti dalla sindrome di Down. Questa cosa mi fa molto piacere, la loro sensibilità è particolare, sentono cose che noi non riusciamo a sentire”. In fondo l’arte esiste anche per cercare di sfiorare queste cose “che non riusciamo a sentire”. È il mistero profondo dell’essere uomini. Proferito da queste tele perturbanti, a volte epifanicamente inchiodate a un muro.

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