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Ugo La Pietra, gli spazi della casa e della città dopo il covid-19

Articolo. Da un lato l’inaspettata visione metafisica, inquietante e affascinante al contempo, di strade, piazze, intere città improvvisamente deserte. Dall’altra la riscoperta della casa. E già si parla di “Pandemic Architecture”. Cosa ne pensa il grande architetto e designer abruzzese

Lettura 4 min.
(Beppe Bedolis, rielaborata da Luca Barachetti)

Che la pandemia stia rimodulando il nostro modo di abitare e condividere gli spazi, dalla casa alla città, è sotto gli occhi di tutti: spazi urbani ridisegnati dai nastri che guidano i nostri percorsi e dalle coreografie del distanziamento sociale; case che vengono riorganizzate per essere allo stesso tempo rifugi e luoghi interconnessi, aperti alle incursioni dello spazio virtuale.

Cosa pensa di tutto questo una figura decisamente atipica come Ugo La Pietra, che al tema dell’abitare ha dedicato una vita intera? Pittore, scultore, architetto, designer, docente universitario, regista e saggista, promotore culturale, nel suo lavoro ha sempre fluttuato allegramente tra i confini disciplinari, così come tra i muri che nello spazio che abitiamo dividono pubblico e privato, centro e periferia. Le parole che seguono sono le sue.

Interno/esterno

“Da troppo tempo la gente aveva perso l’abitudine di stare a casa, proiettata sempre di più nella città. Con una violenza per molti inaspettata è arrivato il virus dalla Cina, e tutti si sono dovuti ritirare in casa: tutti, anche quei giovani che erano impegnati per molte ore nella città; tutti, anche gli studenti che riempivano le strade la mattina presto per andare a scuola; tutti, anche le massaie che con una certa eccitazione riempivano i supermercati traboccanti di offerte; tutti insomma, tutti.
Tutti nelle case, per evitare il contagio!

Le case ritrovano così una frequentazione di cui si era persa la memoria, così ognuno ha cercato di costruire dei rapporti quotidiani con gli spazi e con gli oggetti.
Stare in casa cercando di fare qualcosa: leggere, cucinare, comunicare con internet, dormire... azioni sempre più difficili se corredate dai bollettini televisivi di malati e morti, in Italia e nel mondo, che ci immobilizzano nel terrore quotidiano.

Spazi complementari che non frequentavamo quasi mai, come il solaio e la cantina, diventano opportunità di cui approfittare per dilatare il nostro spazio. Abbiamo riconquistato oggetti e strumenti di casa che non utilizzavamo più, come quelli per cucinare, un’operazione che avevamo perduto per l’abitudine di mangiare sempre più spesso fuori casa. E guardiamo con rinnovata attenzione alla pratica dell’arredamento, a un’architettura degli interni verso cui le nuove generazioni avevano del tutto perso interesse.

Dopo un po’ l’idea di uscire diventa ossessiva. Ed ecco che molti prigionieri in casa cercano una via di uscita: la finestra, ma soprattutto il balcone.

Il balcone, quel luogo proiettato nello spazio urbano, all’esterno, che in questi ultimi decenni si era riempito di mobiletti porta scope, bidoncini della spazzatura, condizionatori d’aria…
I balconi hanno trovato un proprio ruolo. Un ruolo fondamentale per la sopravvivenza, poter stare all’esterno, insomma uscire dalla casa, sentirsi ancora per poco (molto poco) abitanti dello spazio urbano. Il balcone, quello strumento abitativo che riusciva a rappresentare, nelle mie opere degli anni Settanta, il modo di rompere la barriera tra spazio interno e spazio esterno, oggi è diventato uno degli spazi domestici più utili per superare la forzata claustrofobia domestica”.

Affollate solitudini

“Per la città la questione è più complessa. Anni fa scrivevo delle affollate solitudini. La città era strapiena di gente che stava insieme senza una ragione particolare, espressione di quella solitudine che l’individuo urbanizzato stava sempre più subendo o manifestando, tra famiglie disaggregate e la scomparsa del quartiere come elemento aggregante. Il bisogno di aggregarsi è diventato una specie di mania. Tutte le sere la gente si riversava in città per l’aperitivo, assembrata fino a notte inoltrata senza nessuno scopo preciso. Abbiamo riversato il nostro disagio nello spazio urbano, frequentando la città in modo quasi isterico. Eppure lo abbiamo percepito come qualcosa che esprimeva euforia”.

Consumismo e consumismo globale

“Da ultraottantenne, prima che il terrore mi blocchi la mente e mi congeli il cervello, voglio ricordare quando, dopo il primo grande fenomeno di consumismo degli anni Sessanta, che si esaurì con la contestazione e con la presa di coscienza che la società non poteva continuare a crescere in modo lineare (il 1972 ne diede un esempio con la crisi energetica), molti dicevano: non si può continuare così!; bisognava cercare un’altra strada, la società faceva mea culpa, molti artisti e architetti divennero radicali e tentarono strade alternative.

Ma il sacrificio, l’austerità, l’arte per il sociale non erano “sopportabili” e così passammo con disinvoltura al secondo grande fenomeno di consumismo collettivo: quello degli anni Ottanta.
Grande euforia ed entusiasmo, grande voglia di consumare, nel senso dell’uso delle risorse da parte di pochi furbi e privilegiati.
Anche questa fase ci portò presto alla presa di coscienza che non si poteva andare avanti così, con i politici arraffoni e corrotti, con il debito pubblico che ci ha fino a ieri impoverito con tasse esagerate... tutti dicevano: non si può continuare così!.
Si parlava di austerità, onestà, fine della corruzione.
Ma gli uomini onesti, l’attenzione al territorio e alle sue risorse, non erano “sopportabili” e così, con grande entusiasmo e con l’aiuto del berlusconismo, siamo arrivati al terzo grande fenomeno di consumismo: quello degli anni Duemila.

Da diverso tempo si festeggiava questa epoca del grande consumo, resa possibile dell’apertura dei grandi mercati globali, soprattutto sostenuti dalla dittatura cinese, che ha raggiunto in breve tempo il controllo di quasi tutto il mercato.
Mercato sempre più esasperato e diffuso (le vie della seta!), mercato che ha sfruttato in modo esagerato tutte le risorse (colture Intensive, depennamento delle risorse ittiche, allevamenti intensivi), moltiplicando in modo esponenziale trasporti di persone e merci.
E finalmente qualcuno stava capendo cos’è la globalizzazione unita al grande consumo: un cocktail micidiale, che aveva superato di gran lunga il primo consumismo degli anni Sessanta e il secondo consumismo degli anni Ottanta.

Milano, la nostra capitale morale, festeggiava con entusiasmo ed euforia il grande consumo: miliardari cinesi alimentavano con il loro shopping quotidiano il mercato del lusso; le scuole di design, moda, arte, comunicazione, si riempivano di studenti che pagavano quote d’iscrizione sempre più alte; il mercato cinese fioriva nell’unica città del mondo che aveva trasformato un’ampia zona del centro in un mercato all’ingrosso.

Oggi dobbiamo imparare a convivere anche con un altro pesante fenomeno di globalizzazione che ci appare come un fenomeno distruttivo.
Molti stanno già pensando al dopo: dopo non faremo più gli stessi errori, non si può più continuare così!. Noi vecchi l’abbiamo già sentita due volte questa frase: tutto deve cambiare!.

Per alcuni anni, tante persone di buona volontà ci proveranno, ma dopo la catastrofe del virus saremo più poveri di prima e dopo un po’ ci stancheremo di una vita fatta di rinunce.
Saranno probabilmente sempre i cinesi che sapranno alimentare un nuovo grande mercato globale, sfruttando anche le risorse umane e materiali dell’Africa, e che ci verranno ad aiutare.

Vi ricordate gli aiuti degli Stati Uniti che ci salvarono dalla fame nel dopoguerra?
Ci porteranno tante cose (non buone) che ci sembreranno buone, a tal punto da illuderci di poter entrare nella quarta edizione del consumismo, e nella seconda del consumismo globale (malattie comprese)”.

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