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Capire qualcosa di più dei film sul tempo di Christopher Nolan

Intervista. Come sono stati girati e montati “Inception”, “Interstellar” e “Tenet”? A Bergamoscienza l’astrofisico Luca Perri e il regista Mauro Zingarelli proveranno a spiegarlo. Intanto ci siamo fatti anticipare qualcosa da quest’ultimo, senza capire tutto. Perché forse il regista britannico vuole così

Lettura 6 min.

“Non è il tempo, il problema. Uscirne vivi è il problema!”

Dice queste esatte parole Neil, il personaggio interpretato da Robert Pattinson in “Tenet”, l’ultimo film di Christopher Nolan uscito nei cinema l’anno scorso. “Un bel tacer non fu mai scritto” risponderebbero in coro gli spettatori – citando il noto proverbio italiano – di questo film che gioca con lo scorrere del tempo e, in fondo, con lo spettatore stesso. Il tempo è al centro di altri tre film di Nolan (“Inception”, “Interstellar”, il già citato “Tenet”) e a Bergamoscienza domenica 3 ottobre (ore 17), nella conferenza “Il tempo di Nolan”, Mauro Zingarelli, regista esperto di effetti speciali, e Luca Perri, astrofisico, cercheranno di rispondere alla domanda che rimane sospesa nell’aria dopo la visione di uno dei film appena citati: “…ma come ha fatto?”. Noi lo abbiamo chiesto a Mauro Zingarelli.

GB: Iniziamo da te. Che rapporto hai con Nolan?

MZ: Io sono cresciuto quando “Batman Begins” e “Batman – The Dark Knight” erano nel pieno della loro popolarità. A me quest’ultimo ha cambiato la vita: ero alle superiori e stavo decidendo cosa fare nel futuro. Avevo già una forte passione per il cinema e vedere un film del genere mi ha fatto capire che quella era esattamente ciò che volevo fare io. Avevo già visto “Memento”, sempre di Nolan, ma “Dark Knight” ha fatto impazzire davvero tutti noi di quella generazione. Io, poi, ho recitato fin da quando ero bambino a Foggia, la mia città natale. A Roma, poi, ho frequentato il corso di regia della NUCT che, al tempo, aveva come direttore artistico Francesco Alò, critico cinematografico che conosceva tantissimi registi e che, soprattutto, ce li portava a lezione. Non solo: ho avuto la fortuna di infiltrarmi in un set di Paul Haggis, quello di “Third Person”. La NUCT, infatti, aveva le aule dentro Cinecittà: io, una sera, mi sono appostato fuori dallo studio di Haggis e, quando è uscito, gli ho chiesto se il giorno dopo avrei potuto visitare il set. Così è stato: mi sono seduto con lui in cabina di regia mentre girava le scene.

GB: E crescendo come si è evoluto il tuo rapporto con il cinema di Nolan?

MZ: Con gli anni, ogni suo film mi ha stupito sempre di più, perché fa un cinema estremamente d’intrattenimento ma allo stesso tempo in grado di mettere un po’ alla prova l’intelletto dello spettatore, che è una cosa bella. Secondo me, infatti, siamo arrivati in un’epoca del blockbuster che tende ad interessarsi più al contenitore che al contenuto: basta che il film sia inquadrato in un bel contenitore per far sì che la gente vada a vederlo. Sembra non essere più così necessario impegnarsi a quel livello, ma Nolan lo fa comunque. È questo che io apprezzo di lui: Nolan è proprio la persona che, se mi chiedessero chi vorrei diventare, indicherei senza alcun dubbio.

GB: Collabori con un canale su Youtube, la Slimdogs, in particolare al format “Ma come ca**o hanno fatto”, in cui spieghi come vengono fatte le scene più assurde dei film. In un video del 7 febbraio 2020 vi siete concentrati su “Independence Day” e “Inception”. Quale è la derivazione cinematografica dei piani temporali di “Inception”? Da dove arriva questa idea?

MZ: I detrattori di Nolan, quando si parla di “Inception”, indicano subito un film d’animazione giapponese chiamato “Paprika – Sognando un sogno” (del 2006, diretto da Satoshi Kon, ndr), che è molto simile al film di Nolan. Sicuramente Nolan ha preso da “Paprika” molte suggestioni, però bisogna dire che affronta gli stessi temi in maniera completamente diversa: laddove “Paprika” è incentrato sulla psicanalisi e sull’analisi dei sogni, “Inception” è invece più incentrato sul come essere sicuri di trovarsi nella realtà. L’altra grande similitudine di “Inception” è che è un film basato su un colpo, come “Ocean’s Eleven”, e ne ha tutte le caratteristiche: l’obiettivo criminale, la squadra e il suo reclutamento, le caratteristiche precise di ogni personaggio, la necessità che il colpo vada a segno, cosa che ovviamente non succede, e infine la riuscita del tutto con un colpo di coda finale. In questo senso, anticipa quello che poi sarà “Tenet”.

GB: A proposito di “Tenet”, guardandolo si ha la sensazione di essere in un gioco infinito in cui lo spettatore sembra inerme di fronte a questo continuo enigma. L’obiettivo del regista, secondo te, era proprio trasmettere questa perenne incertezza?

MZ: Per me “Tenet” è un film che cerca di venire a capo dell’enorme dilemma che c’è tra fede e libero arbitrio. Il protagonista, infatti, è senza nome per un motivo: vuole lasciare lo spazio necessario per farci proiettare dentro di lui, per farci sentire i protagonisti. Tutto il film gira attorno a questo concetto: il fatto è già successo quindi, tecnicamente, non serve il mio impegno o il mio contributo, perché succederà comunque. Come dice a un certo punto il personaggio interpretato da Robert Pattinson, però, il fatto che questa cosa succeda non significa che tu non debba comunque impegnarti per farla succedere. Alla stessa maniera, il protagonista riesce a vincere la sfida quando smette di cercare di cambiare: a più riprese, nel film, vediamo che ogni volta che cerca di cambiare ciò che dovrà succedere, perché è già successo, sbaglia. Alla fine, invece, quando impara che deve semplicemente fidarsi del tempo pur impegnandosi al massimo, vince. Il dilemma su cui Nolan vuole farci riflettere, secondo me, è questo: se tutto è predeterminato, perché mi impegno? E se mi impegno, cosa cambia se è già tutto predeterminato?

GB: A livello pratico, come hanno girato questo film?

MZ: Diventando matti, semplicemente. A parte gli scherzi: la difficoltà maggiore è stata nell’avere contemporaneamente in campo qualcosa che andasse dritto e qualcosa che andasse in reverse, al contrario. Il problema non era, tanto, mandare le cose in reverse, ma far sì che all’interno della stessa inquadratura ci fossero entrambi i tempi. Tutto il film è stato costruito cercando di trovare il maggior numero di gesti palindromi, cioè che si potessero eseguire sia in avanti che all’indietro: una persona che cade, per esempio, o una corsa.

GB: Un esempio per capire meglio?

MZ: Quando, come per esempio per un’esplosione, si trovavano di fronte a delle situazioni che non potevano essere eseguite al contrario, allora arrivava il bello. L’esplosione, che nel film avrebbe dovuto essere in reverse, ovviamente è stata girata nell’unico modo in cui si poteva girarla: al dritto. Ugualmente, le persone che, insieme a lei, avrebbero dovuto essere in reverse camminavano e facevano i gesti in modo dritto, normalmente. Le persone e le situazioni che, invece, nel film, dovevano essere dritte, venivano fatte muovere in reverse, al contrario. In questo modo, quando hanno montato l’intera scena hanno messo tutto in reverse, rendendo il tutto coerente con il film.

GB: Ma come gli è venuta l’idea di un film come “Tenet”?

MZ: Nolan è partito dal fatto che l’uomo può avere la percezione del tempo in reverse solo grazie al cinema, cioè perché può riprendere: prima dell’invenzione della macchina da presa non era possibile sapere come una cosa fosse, al contrario. Una mossa, una caduta, una corsa… Partendo da questa idea, dal reverse come caratteristica intrinseca dell’arte cinematografica, ha quindi voluto metterla al centro di un film. Da lì, poi, si è fatto aiutare per trovare il modo per renderla così ma la genesi è stata quella.

GB: Quanto conta, a questo punto, la verosimiglianza nei film di Nolan? Non è fantascienza fuori dall’ordinario, c’è sempre una base scientifica di partenza dietro a ogni film.

MZ: Io credo che per Nolan sia importante creare un universo in cui le cose siano sì impossibili, ma comprensibili: questo rende molto più importante l’impatto delle azioni sullo spettatore. Se, per esempio, in un film c’è uno strumento che teletrasporta le persone ma lo spettatore non ne conosce il funzionamento o i limiti, questo è per il pubblico uno strumento magico, che non ha alcuna motivazione logica: è un deus ex machina. Nolan, invece, cerca di immergere lo spettatore in un mondo che sia il più verosimile possibile perché, una volta che ha capito le regole del mondo nel quale i personaggi si stanno movendo, diventa in grado di comprendere quali sono i rischi di quello che stanno facendo. Un esempio su “Inception”: la prima metà è molto lenta ma serve a fare in modo che, una volta che il colpo prende vita, i personaggi non si debbano interrompere per spiegare ciò che sta succedendo perché lo spettatore conosce bene gli strumenti e le loro conseguenze, sia che vengano usati che nel caso contrario.

GB: Come riesce, Nolan, a renderla così bene questa verosimiglianza? Per esempio, il Tesseract in “Interstellar”: come ci è arrivato, sia a livello ideologico che pratico? (vedi il video qui sotto)

MZ: Il lavoro del regista è artistico ma è anche molto artigianale e la buona riuscita dei film sta anche, e soprattutto, nella capacità di circondarsi delle persone giuste. Per “Interstellar” aveva come consulente Kip Thorne, il fisico teorico che ha scritto il libro da cui è nato “Interstellar”. Non solo, però: tutti i reparti che lavoravano sul film erano coerenti nel voler rendere al miglior modo ogni idea di Nolan. La pre-produzione si compone di mesi e mesi di lavoro su modellini, sketch, disegni e prove girate. Il regista, di solito, cerca di darsi una regola: per Nolan era che “Interstellar”, essendo basato sulla scienza, fosse il più scientifico possibile. Dove la scienza non può più arrivare, lì entra in gioco il talento del regista: cosa dovrebbe rappresentare questa cosa? E come faccio a fare arrivare allo spettatore l’equivalente sensoriale di ciò? Non gliela posso far vedere fisicamente magari e, a volte, non gliela posso neanche spiegare. Posso, però, trasmettergliela attraverso una serie di immagini, di suoni e di suggestioni che ce lo facciano arrivare da solo.

GB: E che rapporto ha Nolan con la post-produzione?

MZ: Nolan è legato alla sua idea di cinema sia per un motivo pratico, che per uno emotivo. È cresciuto con quel tipo di cinema e gli piace riprodurlo: a lui non diverte l’uso della SGI (vedi la voce Wikipedia, ndr) e, all’atto pratico, è più divertente per tutti poter costruire degli enormi set cinematografici al posto di affidarli alla post-produzione; ti dà anche un maggiore senso di controllo, perché puoi fisicamente entrare, guardare, toccare. In realtà, però, nei suoi film c’è tanta post-produzione; si pensi che “Tenet”, per esempio, è stato candidato agli Oscar per i migliori effetti speciali. Nolan, sicuramente, cerca di utilizzare la computer grafica il meno possibile e, anche per una questione di marketing, quando la usa non ne parla molto.

Sito Bergamoscienza