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“Cleo dalle 5 alle 7”. Agnès Varda e i sessant’anni di un film che non passa mai di moda

Articolo. A Esterno Notte il 15 luglio per i “mercoledì da leoni” di Bergamo Film Meeting l’omaggio al cinema della grande regista francese con uno dei suoi più grandi capolavori. Una pellicola che sembra fatta ieri e oggi ci riguarda più che mai

Lettura 4 min.

Agnès Varda ci ha lasciato all’inizio del 2019 all’età di novant’anni. Era nata in Belgio ma si è sempre sentita francese, come sua madre (mentre il padre era greco). Durante la sua lunga vita ha diretto oltre cinquanta film, ha vinto il Leone d’oro, l’Oscar alla carriera, la Palma d’oro onoraria al Festival di Cannes (che le ha dedicato l’edizione dello scorso anno) e decine di premi ai festival di tutto il mondo. Ha attraversato sessant’anni di storia del cinema vivendone in prima persona alcuni degli sconvolgimenti cruciali, ha frequentato le personalità più influenti della cultura francese e europea del secondo dopoguerra, influenzato schiere di attori, registi e film-maker ed è stata celebrata dal movimento femminista degli anni settanta. E anche se femminista lo è sempre stata – negli ultimi anni fervente sostenitrice del movimento #MeToo – non si è mai voluta schierare.

Insomma il cinema non sarebbe la stessa cosa, oggi, se non ci fosse stata Agnès Varda. Eppure, al grande pubblico il suo nome non dice molto. Di quell’epoca e di quella storia del cinema francese – quelle della Nouvelle Vague e dei suoi eredi a cui lei non è mai piaciuto sentirsi accomunata – si ricordano nomi come Jean-Luc Godard, François Truffaut o Jacques Rivette, al massimo Jacques Demy, che con Agnés è stato sposato fino alla morte, ma quasi mai il suo. Sicuramente perché – inutile girarci intorno – è stata una donna in un mondo di maschi, “tutta sola in quella grande ondata […] ero l’alibi, l’errore” come diceva lei stessa. E chissà come sarebbe andata se non avesse avuto la fortuna di vivere così a lungo. I premi onorari, le celebrazioni per una carriera irripetibile e l’unanime acclamazione per il suo lavoro sarebbero arrivate comunque? Considerando che i due più importanti premi alla carriera le sono stati dedicati all’età di 86 e 89 anni, quasi certamente no.

Ma in fondo sta anche qui la grande originalità di Agnès Varda. Artista di grande spessore, personalità complessa, autrice colta e instancabile innovatrice, ma anche icona di stile – con il suo caschetto nero e poi bicolore, diventato un segno distintivo. La sensibilità e la grande finezza del suo sguardo sul mondo e sulla vita, capace di cogliere fino alla fine il presente, l’attuale, il contemporaneo, hanno sempre reso i suoi film estremamente innovativi, freschi, urgenti. Basti vedere l’opera per la quale viene sempre ricordata. Il suo secondo film, girato nel 1962 e che sembra fatto ieri, quasi un manifesto, una dichiarazione d’intenti e uno dei grandi capolavori della storia del cinema: “Cleo dalle 5 alle 7”.

Destinato a diventare un film iconico, “Cleo”, fu girato con una povertà di mezzi estrema e come ripiego da Varda, a cui era stata rifiutata la richiesta di una produzione ad alto budget. La regista si era dovuta inventare una storia da poter mettere in scena con agilità e senza spendere troppo. Le venne in mente quindi di girare tutto un film dentro Parigi e di farlo nell’arco di una sola giornata. Per rendere più facile la lavorazione pensò a una trama con lo svolgimento in identità di tempo, elemento che mise poi in risalto nel titolo.

Dalle 5 alle 7 (in realtà l’ora e mezza di durata del film porta la storia a concludersi circa alle 6:30) sono le due ore d’attesa che una giovane e bella cantante di successo parigina, Cleo appunto, deve aspettare per sapere gli esiti di un importante esame medico. Frivola, gaudente, narcisista e fino a quel momento spensierata, la protagonista durante questo breve tempo attraversa diversi stati d’animo – disperazione, sconforto, angoscia e poi leggerezza, svagamento, lucidità – fino a raggiungere un’inaspettata consapevolezza e una maturazione completamente nuova. Nel mezzo impegni, fugaci appuntamenti, corse in tassì, passeggiate, shopping e un incontro che le cambia la vita.

È il ritmo, prima di ogni altra cosa, a rendere “Cleo” un’opera modernissima, che vista oggi non sembra invecchiata di un minuto. Le accelerazioni e i rallentamenti continui scandiscono il pomeriggio della protagonista, mentre il senso del tempo si perde completamente. Da un lato le didascalie incorniciano i momenti segnando le ore precise in cui ogni situazione si svolge, dall’altro tutto si dilata (“il tempo non passa mai”) o fugge via (“ci resta così poco tempo”), spostando i movimenti e le azioni – quasi iperreali e prive di alcun punto di riferimento – in una dimensione profondamente soggettiva.

Intanto tutto intorno la vita vorticosa e frenetica di una Parigi che va di corsa scorre velocissima. I numerosi esterni, fra le strade, i negozi e i caffè della capitale francese – da rue de Rivoli al Café du Dôme, da Vavin a Montparnasse, dal parco di Montsouris alla Salpêtrière – sono tutti girati in presa diretta con i passanti colti a osservare incuriositi gli attori e la troupe mentre lavorano (come in “Fino all’ultimo respiro” di Godard). Tutto risulta ancora più eccentrico, straniante e originale ma allo stesso tempo vero, reale. Non è solo la povertà dei mezzi di cui dispone a spingere Varda a scegliere questa modalità espressiva: per una regista con una grande sensibilità per il documentario e l’autenticità dello sguardo sul mondo, è quasi una necessità, ancora prima che un’impronta autoriale.

Ma “Cleo” è anche un’opera di temi universali e profondi. La protagonista messa di fronte all’impensabile, allo straordinario e a ciò da cui si sente lontanissima per come è e per come vive, conquista una consapevolezza che non è solo autoriferita, ma assume ancora più valore per il suo abbracciare uno spazio globale e per la natura empatica di cui si riveste. L’incontro con Antoine, soldato a fine licenza in procinto di ripartire per l’Algeria, non è solo decisivo perché riflette lo stesso stato di provvisorietà in cui la protagonista vede trovarsi la propria vita, ma anche per il valore inaspettato di un momento di condivisione e complicità. Nella possibilità intravista forse per la prima volta di vivere un’armonia che non è fasulla, strumentale, derivata da corpi materiali.

Ma più di tutto quello che si avverte in “Cleo” è un sentimento al di là del tempo e della storia, una visione della vita alla quale può appartenere l’esperienza di ognuno di noi. Lo stridore del rapporto fra la gioventù e la spensieratezza con la malattia e la morte produce un’atmosfera agrodolce e dolente e rende ogni gesto, ogni azione e ogni percorso ancora più carico di significato. La stupefacente attualità del film consente anche di notare, in questo senso, l’attinenza con il presente in cui viviamo. Un momento in cui il tema della malattia è entrato nel discorso individuale e collettivo, non è affatto banale rilevare che siamo tutti un po’ “Cleo”. Perché all’improvviso ci tocca fare conti con un presente inimmaginabile e al quale non ci sentiamo di appartenere. E di guardare il mondo attraverso qualcosa di sconvolgente come il concetto stesso di malattia.

Che è soprattutto una metafora (esattamente come il tema della gioventù, il film infatti riguarda ogni età della vita) e non va interpretata alla lettera. Piuttosto come un discorso esistenziale, al quale associare le nostre paure, le nostre debolezze e il nostro tentativo di allontanare quello che ci spaventa. Una lezione impossibile da ignorare e mai superata, inattuale o fuori dal tempo. Come solo quella di un grande capolavoro è capace di essere.

Sito Lab 80

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