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Da «L’odio» a «Persepolis», dal primo Kaurismäki a Lynch passando per «Clerks»: i primi cinque «Mercoledì da leoni»

Articolo. Girare in bianco e nero nell’epoca del colore significa spesso fare una precisa scelta estetica. La rassegna di classici di «Esterno notte» curata da Bergamo Film Meeting raccoglie alcuni film immortali del cinema contemporaneo che, rinunciando al colore, hanno scritto la storia

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«Calamari Union» di Aki Kaurismäki

Quando comincia «Esterno Notte» significa che è arrivata l’estate. E quando partono i «Mercoledì da leoni» – la rassegna di classici curata da Bergamo Film Meeting che ogni settimana propone un film cult della storia del cinema – vuol dire che si fa sul serio. Quest’anno i titoli scelti – nove in tutto (più un evento speciale in chiusura) in programma dal 28 giugno al 30 agosto – hanno un carattere decisamente contemporaneo (il più “vecchio” è solo del 1976) e uno spirito ribelle. Dieci film in bianco e nero che, a dispetto della loro contemporaneità, sono anche dieci incursioni in un cinema d’autore in alcuni casi poco esplorato, altre volte fuori dagli schemi e altre ancora completamente sperimentale. Mentre il programma completo è consultabile a questa pagina, noi ci siamo concentrati sui primi cinque appuntamenti che vanno da domani fino alla fine di luglio.

«L’odio» di Mathieu Kassovitz (1995)

I «Mercoledì da leoni» si aprono con uno dei grandi cult degli anni ’90. Circolato sin da subito in tutti gli ambienti underground, e diventato popolarissimo fra il pubblico di giovani e giovanissimi, «L’odio» a trent’anni di distanza resta ancora un film affascinante, attuale e a tratti sconvolgente. Il grande successo di «Athena» di Romain Gavras, uscito l’anno scorso su Netflix, che si ispira in maniera evidente (e non completamente dichiarata) al film di Kassovitz ne è in qualche modo la dimostrazione. La storia è quella di tre ragazzi ventenni della periferia parigina – uno ebreo, uno nero e uno di origine maghrebina – che nel corso di ventiquattro ore attraversano la capitale francese scatenando la loro rabbia e vivendo episodi di forte emotività mentre le banlieu sono in rivolta a causa del ferimento di un ragazzo di sedici anni da parte della polizia.

Con il suo incedere discontinuo, i tocchi onirici e lo stile ruvido (accentuato anche dalla fotografia in bianco e nero) «L’odio» è un film che colpisce a livello profondo e non si dimentica più. Negli anni è diventato un simbolo di ribellione giovanile – tra l’altro realizzato da ragazzi giovanissimi: regista, troupe e cast erano tutti under 30 – che ha saputo anche cogliere la frustrazione e il malcontento di una generazione e anticipare una stagione cruciale della storia francese contemporanea. Oltre alla carriera di Kassovitz, regista e soprattutto attore popolarissimo, ha lanciato anche quella di interpreti come Vincent Cassel, Benoît Magimel e Vincent Lindon.

«Persepolis» di Marjane Satrapi e Vincent Paronnaud (2007)

La graphic novel autobiografica dell’autrice iraniana Marjane Satrapi uscita in Francia a volumi fra il 2000 e il 2003 è diventata un film di animazione nel 2007, riscuotendo grande successo e facendo incetta di premi nei festival di tutto il mondo. «Persepolis» racconta la storia di Marjane dall’infanzia all’età adulta ed è una straordinaria testimonianza in prima persona della disumanità degli integralismi. Nata e cresciuta in Iran, la piccola Marjane fu mandata a studiare a Vienna dai genitori dopo la rivoluzione islamica (1978-79) a causa del clima soffocante e delle politiche repressive (soprattutto nei confronti delle donne) adottate dal regime. In Europa la ragazzina scoprirà che altre forme di integralismo – maschilismo, razzismo, aridità sentimentale – rendono la vita altrettanto dura per chi è straniero. Prima di trovare la propria strada e la serenità trasferendosi in Francia, tornerà in patria per scoprire e sperimentare, ormai giovane donna, il volto più feroce del regime.

Con un tratto grafico elementare, bidimensionale e in bianco e nero (tranne che per descrivere l’arrivo a Parigi, luogo in cui si compie la rinascita), «Persepolis» è uno dei film d’animazione più sorprendenti degli ultimi anni. Narrato in prima persona dall’autrice (che nell’edizione originale francese ha la voce di Chiara Mastroianni) e animato dal fumettista Vincent Paronnaud, è un romanzo di formazione crudo e drammatico ma capace di stemperare i toni più cupi con la spontanea ironia e naïveté di Satrapi, vera forza della natura e incarnazione di una sorta di “ribellione gentile” capace di cambiare il mondo.

«Calamari Union» di Aki Kaurismäki (1985)

Aki Kaurismäki, vincitore del Premio della giuria all’edizione appena conclusa del Festival di Cannes (un mese fa esatto) per il suo ultimo «Kuolleet lehdet» («Fallen Leaves»), è stato “scoperto” dal Bergamo Film Meeting. Nel 1990, infatti, in occasione dell’ottava edizione, il BFM dedicò una personale al regista finlandese ancora poco conosciuto – e praticamente mai distribuito – fuori dal proprio paese, contribuendo a lanciare il suo cinema in Italia e non solo. Non può quindi mancare nel programma dei «Mercoledì da leoni» di quest’anno uno dei primissimi film di Kaurismäki. «Calamari Union» racconta di un gruppo di uomini che si chiamano tutti Frank (tranne uno) che cerca di attraversare Helsinki partendo dal proprio quartiere, Kallio, un sobborgo periferico e popolare della città, con l’obiettivo di arrivare a Eira, zona residenziale esclusiva e benestante affacciata sul mare.

L’impresa si rivelerà disperata e quasi impossibile e i pochi sopravvissuti alla fine decideranno di prendere il mare su una piccola barca dirigendosi verso l’Estonia. Con una trama esigua, senza alcuna logica narrativa e punteggiato da una sfilza di gag, situazioni comiche e sketch, «Calamari Union» è un perfetto compendio dello stile surreale e fuori dagli schemi di Kaurismäki. Girato in bianco e nero con un impiego di mezzi ridotto all’osso, il film è ancora oggi l’espressione di un cinema personalissimo e originale che attraverso un’ironia paradossale al limite del nonsense riesce a parlare di tematiche sociali salienti come l’emarginazione, il classismo, lo sfruttamento o la mancanza di empatia che permeano le società occidentali e i paesi del primo mondo. Tematiche al centro di quasi tutta la filmografia del regista finlandese e che ritroviamo anche in «Kuolleet lehdet», in uscita da noi in autunno e assolutamente da non perdere.

«Eraserhead – La mente che cancella» di David Lynch (1977)

Sul primo lungometraggio diretto da David Lynch si è detto e scritto di tutto. L’aura mitologica raggiunta dal suo autore (una cosa abbastanza rara per un artista in vita) e le schiere di fan che ne esaltano il genio, hanno reso il film una sorta di reliquia verso la quale mostrare esclusivamente reverenza e adorazione. La sensazione però è che «Eraserhead» sia un film molto più chiacchierato che visto, e che la maggior parte delle persone lo conosca più per sentito dire che per esperienza diretta. Anche perché non è esattamente un’attività di svago la visione di «Eraserhead». Si tratta infatti di un’opera sperimentale in un bianco e nero molto contrastato, ambientata in uno spazio ultraterreno e senza tempo dominato da un tetro clima post-apocalittico, girata tutta in interni, avvolta da un profondo senso di inquietudine e volutamente disturbante.

La storia gira intorno a un uomo, Henry Spencer, che vive in un mondo squallido e spettrale popolato da esseri deformi. Dalla sua relazione con Mary nasce una creatura mostruosa e malsana che non fa altro che piangere e gridare giorno e notte. Abbandonato dalla compagna, Henry cerca di prendersi cura del figlio, ma lo stato di esasperazione in cui versa lo porta a essere tormentato da incubi angosciosi e a confondere sempre di più realtà e sogno sino al tragico epilogo. I temi del cinema lynchano, come si vede, sono già tutti qui e, rivisto alla luce della successiva filmografia del regista, «Eraserhead» mostra ancora più esplicitamente l’origine della grande forza espressiva di Lynch e la complessità del suo immaginario. Da vedere assolutamente sul grande schermo.

«Clerks» di Kevin Smith (1994)

Il folgorante esordio di Kevin Smith resta forse anche il miglior film della sua carriera e senza dubbio il più amato e ricordato. Nel ’94 il ventisettenne Smith realizzò quasi da solo (occupandosi di produzione, sceneggiatura, regia, montaggio) quello che è diventato un vero oggetto di culto. «Clerks», ambientato in un piccolo distretto del New Jersey simile al luogo di nascita del regista, racconta una giornata del commesso di “convenience store” Dante Hicks, costretto a lavorare nel suo giorno di riposo, perennemente insoddisfatto del proprio impiego e della propria vita, diviso fra due ragazze – l’attuale fidanzata e la ex – e con il supporto dell’indolente migliore amico Randal, che lavora al vicino videonoleggio ma passa le giornate a cazzeggiare nel negozio di Dante.

Si tratta di un film piccolissimo, prodotto con meno di trentamila dollari e destinato a un circuito underground di appassionati che è invece diventato manifesto di una generazione (la “Gen X” cui il cognome del protagonista non a caso allude). Incarnando tutti gli stigmi e i vizi culturali dei ragazzi della metà degli anni ’90 – come la cinefilia pop, la musica grunge (la colonna sonora è fatta di brani punk e grunge dell’epoca), gli aneddoti inconcludenti, le storielle a sfondo sessuale – è soprattutto un film sulla noia per la vita routinaria di una generazione che ha smesso di sognare ma prende tutto con leggerezza e ironia. Un’ironia postmodernista intrisa di citazionismo ed estetica della superficialità. Visto oggi è un ritratto esemplare dei suoi anni, ormai un classico intramontabile, con una scrittura vertiginosa e perfettamente calato nello stile e l’immaginario che sta fra l’epoca d’oro dei Simpson e il primissimo Tarantino.

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