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“Joker”, la rivolta globale è una risata patologica

Recensione. Il film di Todd Phillips è ambizioso, multiforme ed esagerato come il personaggio che racconta. Ma forse non dice niente che non sapessimo già

Lettura 4 min.

È abbastanza inusuale, se non addirittura bizzarro, che un film come “Joker” vinca un grande festival di cinema internazionale. Anzi, se ci riferiamo al vastissimo universo dei cinecomic, si tratta un’unicità (più che una rarità) assoluta.
Il Leone d’oro andato al film di Todd Phillips all’ultima Mostra del cinema di Venezia in realtà – secondo i meglio informati – sarebbe frutto di una sorta di compromesso fra i membri di una giuria in disaccordo quasi su tutto. Oltre che una scelta a discapito del film di Roman Polański classificatosi secondo (ne riparleremo fra qualche settimana).
Eppure per molti un tale riconoscimento dato a un film così lontano dalle specificità del cinema da festival e vicino al mainstream contemporaneo è un sintomo di discontinuità. Un nuovo corso. Un segno dei tempi.

La verità è più probabilmente che “Joker” ha avuto il merito di trovarsi nel posto giusto al momento giusto. Ma al di là di premi – è molto probabile che ne vincerà molti altri ai prossimi Oscar – festival e dispute sulla commercialità o l’autorialità dell’opera, è senz’altro vero che “Joker” è un film che dice molto dei tempi in cui viviamo. Il problema, semmai, è come lo dice.

La pellicola è concepita come la più classica delle origin story di uno dei villain più celebri dei comics contemporanei. Una forma di racconto molto usata nei fumetti che descrive le origini del personaggio principale – protagonista o antagonista – di una saga.
Il Joker prima di diventare il Joker vive nella Gotham City dei primi anni Ottanta. Si chiama Arthur Fleck e lavora come clown per eventi, feste e promozioni commerciali in una scalcagnata compagnia di servizi di animazione. La sua aspirazione è quella di diventare uno stand-up comedian ma le sue esibizioni nei night della città sono dei continui fiaschi, anche a causa della risata patologica che lo affligge, conseguenza dei disturbi mentali da cui è affetto.

Le insicurezze, le disfunzioni e i traumi infantili – un padre che non ha mai conosciuto e in generale una paternità mancata che lo ha profondamente destabilizzato – uniti a una serie di sfortune, frustrazioni e la sensazione di essere incompreso dalla società, accrescono in Arthur un sentimento di rivalsa. Un mood che si scatena in un’esplosione di rabbia, violenza e perfidia totalmente incontrollate. Punto di non ritorno che completa la trasformazione nel cattivo che tutti conosciamo. E contemporaneamente innesca una rivolta globale (effettiva nel film, fortunatamente mancata nella nostra realtà).

Come in ogni trasposizione cinematografica di personaggi dei fumetti, esistono almeno due tipi di pubblico. Il primo è quello, ovviamente, dei fan più accaniti dei comics. In questo caso di Batman e della DC (di cui l’uomo pipistrello è, insieme a Superman, l’icona principale). Al di là delle dispute di settore, (dalle quali ci teniamo lontani) va sottolineato come la fandom stia sostanzialmente apprezzando il film di Phillips.

Probabilmente perché la costruzione di un’iconografia originaria del Joker al cinema era attesa da tempo. E perché l’idea (azzardata se vogliamo) del film di traslare la storia del nemico di Batman dalla Gotham (e quindi New York) orwelliana del fumetto a quella scorsesiana degli anni Settanta-Ottanta è stata apprezzata. Così come il fatto di essere una sorta di adattamento in forma black label delle origini di Joker, assecondando la nuova linea editoriale della DC lanciata lo scorso anno.*

Ma c’è anche una maggioranza di pubblico che, legittimamente, pretende di vedere un film che stia in piedi da solo, prescindendo dall’universo a cui appartiene. Spettatori per cui le sottigliezze legate al mondo dei fumetti sono elementi del tutto superflui e che della storia di Joker sanno giusto il minimo indispensabile. Per loro il film lavora come un frullatore di immaginari, capace di costruire un mondo che mette insieme i pezzi della cinematografia più iconica del periodo storico di riferimento, la cultura pop più esplicita e i rimandi ai temi sociali più scottanti della memoria collettiva.
E allora “Joker” diventa un’opera ambiziosa, che cerca di rifare “Re per una notte” di Martin Scorsese – Robert De Niro riprende qui praticamente lo stesso ruolo di allora – ma anche “Taxi Driver”. Il tutto mischiato con il cinema di genere più classico in stile “I guerrieri della notte” e la parodia più elementare di “Zorro mezzo e mezzo” (citato esplicitamente).

Quasi un invito a entrare a far parte della mistificazione, a ricordare a chi guarda che si sta “leggendo” un fumetto e che niente va preso troppo sul serio. Eppure è proprio qui che si assiste a uno scollamento fra racconto e rappresentazione.
Il film indugia su una messa in scena realistica e una ricostruzione degli ambienti davvero stupefacente ed efficace. New York è esattamente come appare nei film di Scorsese di quegli anni e il racconto procede con la messa in forma di quel preciso immaginario (che nella memoria collettiva si è completamente iconizzato) puntando a fare di Joker una vittima della società, del sistema e a scontare la propria nascita sciagurata come il Travis Bickle di “Taxi Driver”.
Ma New York non è New York, bensì Gotham. E l’arresa alla violenza del protagonista non può, per forza di cose, essere la stessa.

Quando Arthur perde completamente il senno trasformandosi in Joker il regista decide di aderire al genere comic e altera pesantemente il racconto, lasciando la sensazione che al film manchi un registro omogeneo.
Nel finale, quando probabilmente l’intenzione è quella di accentuare maggiormente la metafora e rivelare l’attualità del film, tutto prende una deriva troppo superficiale.
Gli scontri di piazza, l’odio per le élite (economiche, ma forse anche culturali), il movimento di protesta dal basso che il dato di realtà lega alle rivolte di Tompkins Square Park dell’88 e che vuole essere un rimando alle piazze populiste di oggi, appaiono come letture davvero frettolose e approssimative della contemporaneità. Tanto che negli Usa sono già nate diverse polemiche per come la rappresentazione dell’indignazione delle piazze sia troppo ambigua.
E se l’unico vero (sebbene inconsapevole) scorcio acuto sull’attualità è una frase che sembra parlare della politica di casa nostra – e recita grosso modo: “un pagliaccio non può fondare un movimento!” – la sensazione che un regista troppo abituato a giocare con la farsa (in stile “Una notte da leoni” di cui è autore), non sappia gestire adeguatamente tutta la carne che getta sul fuoco.

Sprecando anche le enormi doti attoriali di Joaquin Phoenix, che potenzialmente poteva (doveva) essere il miglior Joker cinematografico mai visto. Ma che – anche se quasi sicuramente i prossimi Oscar ci smentiranno – dà la sensazione di non uscire mai dalla dimensione macchiettistica, dallo stereotipo più facile e da una recitazione sopra le righe, inutilmente enfatica e mai veramente carica dell’ambiguità che un personaggio tanto complesso suggerirebbe. Quasi che il primo a esserne spaventato sia proprio lui. Ma in fondo, come ci insegna tutta la vicenda di “Joker”, a volte anche il più spaurito dei gattini può diventare un Leone.

* la black label è una linea editoriale lanciata dalla DC Comics nel 2018 che ha lo scopo di pubblicare fumetti legati alle figure iconiche della casa editrice senza che questi siano vincolati alla continuity delle serie regolari e in cui gli autori e i disegnatori si possono muovere in piena libertà.