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La grande abbuffata: in sala Martone, “Dune”, Schrader, Moretti, il gioiello di Hamaguchi Ryûsuke e tanto altro

Guida. Dopo la pausa estiva riaprono le sale e arrivano tantissimi film passati ai grandi festival del cinema internazionali. Ce n’è per tutti i gusti ed è un segnale di salute confortante, che conferma come il cinema festivaliero sia vivo, presente e sempre più accessibile al grande pubblico. Buon appetito!

Lettura 6 min.

Possiamo finalmente dire che il cinema è tornato. Nel senso proprio della sala. Dopo due stagioni disastrose e la migrazione progressiva dei film sulle piattaforme – cosa buona, giusta e necessaria in tempo di pandemia – questo autunno (quasi) tutto sembra stia tornando com’era prima del Covid. Certo il ruolo dello streaming nel frattempo è mutato radicalmente e il sistema distributivo andrà sempre più verso una forma integrata, tuttavia vedere di nuovo i film in sala – aspettando il ritorno della capienza al 100% – è già una gran bella notizia.

Quest’anno inoltre gli effetti della pandemia hanno fatto sì che il Festival di Cannes slittasse fino al mese di luglio (dalla consueta collocazione a maggio) finendo quindi a poche settimane di distanza dalla Mostra di Venezia (appena terminata) e facendo sì che durante l’estate i due principali festival cinematografici del mondo diventassero (al netto della ovvia concorrenza) quasi un prolungamento l’uno dell’altro. Il risultato è che da qui a dicembre, nei primi mesi della stagione cinematografica, una quantità inusuale di film passati per i grandi festival arriveranno al cinema tutti insieme, andando a completare un calendario che, unitamente a altre grandi uscite fermate dal Covid e finalmente sbloccate, si annuncia ricco come non mai.

Per tutti questi motivi abbiamo provato a fare un riassunto delle cose notevoli da trovare in sala in queste settimane che sono passate da Cannes e Venezia. C’è un po’ di tutto, dal cinema d’autore, a quello di genere fino ai blockbuster e sì, c’è anche “Dune”.

“Qui rido io” di Mario Martone

Eduardo Scarpetta e le sue due, tre, quattro famiglie (forse di più). Potrebbe essere questo il sottotitolo del film di Martone, ambientato nella Napoli di inizio Novecento e incentrato sulla vita del grande attore, drammaturgo, regista e capocomico Eduardo Scarpetta (Toni Servillo), figura fondamentale del teatro italiano, uomo dai tanti vizi e dai numerosi figli, soprattutto illegittimi, e capostipite di molte generazioni di attori e autori del teatro napoletano, fra cui i fratelli De Filippo.

Ripercorrendo la (reale) vicenda giudiziaria che vide Scarpetta processato per plagio a danno di D’Annunzio – l’accusa era di aver ridicolizzato la tragedia dannunziana “La figlia di Iorio” trasformandola in commedia – il film diventa la raffinata ricostruzione della vita privata di uno degli artisti più geniali dell’Italia di inizio Novecento. Ma anche una acuta riflessione sull’arte come elemento inscindibile dalla vita. Scarpetta recita, finge, si esibisce (financo in tribunale), è personaggio fuori e dentro la scena e protagonista di una propria commedia privata ma vera come la vita.
(Cineteatro Gavazzeni Seriate/Anteo Treviglio)

“La ragazza di Stillwater” di Tom McCarthy

Un thriller insolito, giocato su una tensione che non sta negli intrighi della trama o nei caratteri dei personaggi, ma tutta nelle relazioni. E nella distanza. Quella spaziale, ideologica, esperienziale e politica che separa Marsiglia, dove il film è ambientato, dall’Oklahoma, da cui arriva il protagonista, un trivellatore di pozzi petroliferi (interpretato da Matt Damon), in Francia per cercare di tirar fuori di prigione la figlia ventenne accusata di omicidio.

Lavora in modo molto intelligente con gli stereotipi McCarthy, costruisce il film sulle differenze e sull’alterità ma senza mai scadere nell’ovvio. Ne viene fuori un’opera contemporanea in cui la frizione culturale, ideologica e sociale fra l’Europa e l’America che emerge, descrive molto bene la complessità del mondo in cui viviamo da una prospettiva occidentale. E soprattutto alla luce dei quattro anni di trumpismo appena passati, persino il corpo di Matt Damon sembra un segno dei tempi: invecchiato, stanco e malinconico eppure, fatalmente, più umano.
(Capitol/Uci Orio)

“Dune” di Denis Villeneuve

Uno dei film più attesi dell’anno, pensato come un colossal e concepito per diventare una saga, tiene fede alle aspettative ed è già fra i maggiori incassi della stagione. In due ore e mezza “Dune” adatta circa un terzo del romanzo di Frank Herbert da cui è tratto e si affida alle immagini piuttosto che ai dialoghi per raccontare i tantissimi personaggi e gli ancor più numerosi intrighi su cui è costruito. Villeneuve riesce dove Lynch (nel suo adattamento del 1984) falliva, cioè nel dare risalto visivo a un poema epico stratificato e espanso, senza perdersi nei paludamenti della trama e mettendo in piedi uno spettacolo suggestivo, roboante e magniloquente.

Abbandona le divagazioni new age di Herbert recuperandone invece l’ispirazione umanista e affondando lo spettatore in un universo sensoriale quasi soffocante, con un uso del sonoro complesso e che mette alla prova – ma anche per questo il film è assolutamente da vedere in sala. Ne viene fuori una fantascienza estranea, diversa da come la conosciamo, imprevedibile e destinata a mutare nel tempo. A proposito: la seconda parte è in cantiere ma si farà solo se gli incassi della prima saranno soddisfacenti. E anche questo è cinema post-Covid.
(Conca verde/Anteo Treviglio/Uci Cinema Curno e Orio/Mubi)

“Il collezionista di carte” di Paul Schrader

Quello di Paul Schrader (autore di film cult come “Taxi Driver” o “Toro scatenato” da sceneggiatore e “American Gigolò” o “Il bacio della pantera” da regista) è un cinema fuori dagli schemi. Sempre al limite dell’eccesso e che richiede allo spettatore di accettare una forma e una rappresentazione radicali e non concilianti.

Anche “Il collezionista di carte” in questo senso non fa eccezione. La storia dell’ex marine William Tillich (Oscar Isaac), carceriere-aguzzino di Abu Ghraib, che a più di 15 anni di distanza dai fatti del penitenziario iracheno che sconvolsero il mondo, cerca di dimenticare il passato e si guadagna da vivere come giocatore d’azzardo, non risparmia una messa in scena forte, fatta di immagini aspre e situazioni tutt’altro che ordinarie. Un film che va a fondo del rimosso e delle colpe di una nazione attraverso un personaggio oppresso dai sensi di colpa e costretto a scendere a patti con le nefandezze del mondo. Un’opera che cerca la complessità nella metafora (rischiando di diventarne vittima) e prova a individuare negli stigmi del presente le tracce per comprendere un mondo ormai sempre più incomprensibile.
(Uci Orio)

“Welcome Venice” di Andrea Segre

Andrea Segre al Festival di Venezia è di casa. Un po’ perché è nato a pochi chilometri da lì e un po’ perché come documentarista si è spesso occupato delle storie della Laguna, delle sue tradizioni, evoluzioni e contraddizioni. In “Welcome Venice”, suo quinto film di finzione, racconta la storia di tre fratelli di mezz’età che vivono e lavorano a Venezia, due di loro sono pescatori di “moeche” (granchietti tipici della laguna) mentre il terzo odia l’acqua, il mare e il lavoro manuale e si occupa di immobili e ricezione turistica. Al centro c’è una bellissima casa (di proprietà di tutti e tre) che affaccia sulla Giudecca, i primi due vorrebbero usarla per pescare come è sempre stato, il terzo preferirebbe trasformarla in un b&b.

Dentro queste differenti vocazioni risiede un conflitto ideologico che in scala più grande racconta gli sconvolgimenti sempre più traumatici di quell’inestimabile e unico tesoro che è Venezia. Segre non dà giudizi, non getta accuse e non assolve nessuno, si limita ad osservare con grande rigore e misura i tempi che cambiano, anche dentro uno dei pochi posti al mondo in cui il tempo sembra essersi fermato.
(Del Borgo)

“Tre piani” di Nanni Moretti

Fermo da oltre un anno causa Covid finalmente arriva in sala uno dei film italiani più attesi. Nanni Moretti adatta il romanzo dello scrittore israeliano Eshkol Nevo e sposta l’azione da Tel Aviv a Roma. In una palazzina borghese, affacciata su una tranquilla strada residenziale, vivono alcune famiglie ognuna alle prese con le cose della vita, i problemi e le difficoltà delle relazioni e le responsabilità della costruzione di un’educazione per i propri figli, di un nucleo familiare, di una comunità. I tre piani della villetta nel romanzo sono metafora delle istanze intrapsichiche dell’es, dell’io e del super-io e per Moretti diventano la rappresentazione di un mondo fatto di rapporti conflittuali, di solitudini e traumi quotidiani in cui crescere significa farsi carico del peso dell’esistenza.

Un film duro, spietato, malinconico dove un’atmosfera di torpore e sonnolenza – marcata da una recitazione quasi straniante di tutti gli attori – ammanta tutto come descrivesse un mondo in rovina, già morto senza ancora essersene reso conto. Nanni non era mai stato tanto feroce e a vederlo così fa quasi paura.
(in sala dal 23/09)

“Drive My Car” di Hamaguchi Ryûsuke

Cinema d’autore ispirato, intelligente e acuto come se ne vede raramente in sala. Il regista giapponese Hamaguchi Ryûsuke parla di memorie, sentimenti, conflitti e rimozioni. Lo fa attraverso un’opera fluviale, lunga tre ore ma leggerissima, in cui tutto scorre con grande garbo e naturalezza. Un regista teatrale, la moglie attrice che prima lo tradisce e poi scompare e quindi la vita fatta di ricordi di lui, la chiusura al mondo e il lento, nuovo, dischiudersi alla vita. Attraverso Čechov e attraverso nuovi incontri, il confronto con altre solitudini e altre ferite, diverse eppure così vicine. Lui che prova a fidarsi di nuovo dell’altro (dell’altra), che lascia a qualcun altro guidare la propria macchina, penetrare la scorza del proprio isolamento, mentre piano piano si riappropria dei propri sentimenti. E non per forza dell’amore per la vita o per un’altra persona, ma per una sensibilità nuova, per il tempo che passa e per un futuro a cui affacciarsi.

Eccolo qui il film più bello di Cannes 2021, quello che non ha vinto (quasi) niente e di cui si è parlato pochissimo, ma assolutamente da non perdere se vogliamo farci un po’ di bene.
(in sala dal 23/09)

“Titane” di Julia Ducurnau

La Palma d’oro più strampalata di sempre. Inaspettata, spoilerata (in anticipo e dalla stessa giuria), detestata dalla stampa e amata soprattutto da quelli che non l’hanno vista. “Titane”, la prima palma “millenial” della storia (la regista ha 36 anni ed è la vincitrice, vivente, più giovane al mondo) è un film politico, certo, e quindi perfettamente e spudoratamente contemporaneo. Ma prima ancora è un film di genere, un fanta-horror di gusto cyber-punk fracassone e imperfetto, pieno di trovate più o meno riuscite e indugi kitsch, che dopo poco meno di metà non sa più dove andare e allora prosegue per impressioni e ripetizioni.

Racconta di una giovane donna, Alexia, che ama le auto a tal punto da restare incinta di una Cadillac. Durante la gravidanza muta continuamente il proprio corpo: diventa maschio, macchina, animale e qualsiasi altra cosa voglia essere. Perché tutto è fluido, non esistono codici binari e ogni cosa può, letteralmente, trasformarsi. Il messaggio è affascinante, al passo coi tempi e sicuramente necessario. Ma è anche tutto quello che c’è, di cinema invece quasi niente. Vedere per credere.
(in sala dal 30/09)