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Nel nostro “Fauda” quotidiano siamo stati tutti Doron almeno una volta

Articolo. La serie israeliana, con protagonista una squadra speciale che combatte Hamas, ci dice molto su ciò che sentiamo quando le cose non vanno come dovrebbero. In una sola parola: l’odio

Lettura 4 min.

C’è una frase del film “G.I. Joe - La vendetta” che dice una grande verità: “È possibile provare così tanto odio che smetti di sentirlo come un pesce che non sa di essere nell’acqua”. Il film è terribile e non avrei mai pensato di metterlo in un articolo, ma la citazione è utile per parlare di “Fauda”, una delle serie tv targate Netflix made in Israele. Come ha detto qualcuno, gli israeliani le sanno fare, e se avete visto (e apprezzato) “The Spy” (anch’essa israeliana, con un bravissimo Sacha Bron Cohen) o “Homeland” forse dovreste dare un’occhiata alle tre stagioni della serie, ideate da Lior Raz e Avi Issacharoff.

Tutt’altro che nuova, “Fauda” è uscito in Italia nel 2016, quindi non ve la potete spendere a tavola con le vostre amiche o amici per fare colpo. Però se pensate che l’equivalente di questo prodotto in Italia potrebbe essere “Nero a metà” (non brutta, ma… ci siamo capiti) concludete che sì, è vero, gli israeliani le sanno fare. Sarà che hanno un conflitto in casa e si sa che le tensioni sociali sono sempre “utili” per raccontare una storia – pensate al bellissimo “I miserabili” di Ladj Ly, che estetizzando il disastro delle banlieu senza cadere in leziosità mette un punto al modello multiculturale francese – sarà che il cinema e le serie tv sono un efficacissimo strumento di propaganda, sta di fatto che la qualità delle serie uscite negli ultimi anni dalla Terra promessa non si discute. La politica di Israele contro la Palestina e l’Iran invece sì.

Ma questo del conflitto israelo-palestinese è un ginepraio in cui chi scrive non vuole entrare. Troppo complesso, troppo “irrisolvibile”, troppo pieno di “sì ma anche” e di influenze degli stati esterni (US.A., Egitto, Iran e via dicendo). Insomma, geopolitica di quella grossa, per cui è un attimo dire una castroneria enorme. Quello che importa qui è che “Fauda”, in arabo “Caos”, è una serie tv sull’odio. Quello puro, energizzante come un “carburante nobile” (cantavano gli Afterhours), non certo esente da motivazioni lungo uno schema di vendette e controvendette. L’odio, una brutta bestia con cui prima o poi tutti facciamo i conti.

Il protagonista di “Fauda” si chiama Doron Kabilio (il già citato Lion Raz) ed è la punta di diamante di una squadra speciale di pazzi come lui, che con i diritti umani ci farebbero una frittura (se fossero olio). Fisico taurino e sguardo che a prima vista non denota intelligenza, Doron è una macchina da guerra. Quando carica e scarica la pistola in allenamento, fa paura. Quando picchia i compagni secondo i dettami di quello che potrebbe essere krav maga, anche. Ci ha provato a lasciare perdere mettendo su prima una viticoltura e poi un allevamento di pecore (“capraio” lo definisce il nuovo capo, “pastore” precisa lui). Ma il richiamo delle armi, della violenza e del sangue (quello israeliano, i palestinesi sono carne da cannone) è troppo forte ed eccolo allora tornare in squadra per combattere ancora una guerra silenziosa che stagione dopo stagione fa tanti morti.

L’avrete capito: se nel conflitto tra Israele e Palestina (o meglio tra Sionisti ed Hamas) state dalla parte di quest’ultima forse è meglio che non vediate “Fauda”, a meno che abbiate voglie di incazzarvi un po’ – fermo restando che quella israelo-palestinese non è una partita di calcio e quindi, come spesso accade in tempi di social network e semplificazioni tanto al chilo, non dovete tifare per l’uno o per l’altro, ma capire (e vi sfido a farlo).

Una brutta bestia l’odio, dicevamo. Il modo più facile per autodistruggersi (e difatti Doron nella sua battaglia contro Hamas rischia parecchio, fino a travestirsi da martire per entrare a contatto con un leader chiamato la Pantera). Una sorta di nichilismo emotivo che può indurre a commettere cose brutte, molto brutte. Perché nulla vale veramente, se non l’oggetto del proprio odio.

Tutti nel nostro Fauda quotidiano abbiamo odiato. Chi il / la propria ex, chi il vicino di banco, chi il collega che tenta di mettere i bastoni fra le ruote. L’odio è lì, pronto ad azzannarvi e ad azzannare, e solo alcune barriere culturali e di educazione lo possono fermare o gestire. In breve: c’è una bella differenza, ad esempio, tra l’odiare la propria ex ma credere comunque ci sia un limite che risiede nella pari dignità fra generi e pensare invece che in fondo una donna è una donna e vada soggiogata. Non lo si ammette mai, magari lo si dice solo al bar dandosi il gomito. Ignoranza, certo, imparentata con l’odio, che è sempre pronto a scattare, basta l’occasione. “Quando torni a casa la sera, picchia tua moglie. Tu non sai perché, ma lei lo sa benissimo”, recita un celebre detto cinese non specificando cosa sia successo al cinese picchiatore per arrivare a tanti violenza. In ogni caso è terribile, no?

Ecco, al di là di come la pensiate sul conflitto israelo-palestinese, in una cosa “Fauda” riesce: mette in mostra l’odio. Quello incistato nella carne, quello diventato abitudine. E non è strano vedere Doron e la sua squadra ridere due minuti dopo aver pestato a sangue un parente di un miliziano. Non è solo crudeltà, non è solo una pericolosa amoralità. Sono loro i pesci, l’acqua in cui stanno è fra le più profonde che vi siano. “Fauda” sembra un’immersione in una giostra di omicidi, torture e minacce da una parte e dall’altra. Tuttavia Doron soffre, il dolore penetra negli interstizi della sua furia, gli ricorda la sua umanità, e così accade per i miliziani di Hamas, cechi d’odio ma addolorati.

Proprio come nella tragedia greca, “Fauda” racconta cosa possiamo essere. In certe, situazioni, sicuramente. Ma anche in quella normalità quotidiana dove delusione, disincanto, frustrazione alimentano il rancore, che ci mette un attimo a diventare odio. Non sarà l’odio gigante di israeliani e palestinesi, ma non è necessario arrivare a quel livello.

Cosa muove un uomo che getta dell’acido sul viso della sua ex? Oppure, pensate ad esempio all’abuso di una parola violenta, che non ammette repliche, come “schifo”, fatto da certi politici per caricare a molla il loro elettorato su temi come le migrazioni, grazie ai quali si trova un’unione e un’identità in contrapposizione a. Anche se non siete da quella parte non crediate di esserne esenti, di fronte all’odio non serve indicare l’altro ed ergersi quindi su un piedistallio che può sgretolarsi all’istante quando le cose non vanno come dovrebbero. Una volta almeno, siamo stati anche noi Doron. Anche noi volevamo sparare. E se abbiamo sparato, si sa che “per tutti il dolore degli altri / è dolore a metà”.

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