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“Panama Papers”: se il sistema economico è una grande lavanderia a gettoni

Recensione. Con il suo ultimo film Steven Soderbergh ci racconta lo scandalo finanziario del 2016 attraverso i due uomini che l’hanno creato. Una grande illusione retta sull’ideologia capitalista e di cui tutti siamo vittime inconsapevoli

Lettura 3 min.

Se fosse un documentario d’inchiesta o d’approfondimento, magari in stile report giornalistico e fitto di talking heads (quel tipo di racconto in cui numerosi esperti spiegano un argomento), probabilmente non ci capiremmo niente. E se fosse una fiction – tipo un giallo o un film drammatico alla Michael Mann per usare le parole del regista – l’impianto narrativo sarebbe risultato di certo molto più avvincente, ma forse sarebbe sfuggita la questione centrale del film. È per questi motivi che “Panama Papers”, il nuovo film di Steven Soderbergh, è una commedia.

Una commedia che si muove sullo scenario del noto scandalo finanziario scoppiato nella primavera del 2016, che ha colpito il mondo economico globale. Si parla di un fascicolo monstre composto da circa 11 milioni e mezzo di documenti relativi a migliaia di società offshore. Qualcosa di talmente grande, complesso e inesplicabile che è probabilmente stato capito poco e dimenticato piuttosto in fretta. Tuttavia le ripercussioni sulla vita delle persone comuni sono state numerose.

Il film parte proprio da qui, cercando di mostrare come il mondo dell’alta economia internazionale e quello di una semplice vedova della provincia americana siano straordinariamente interconnessi. La storia è quella di Ellen (Meryl Streep) che perso il marito in un banale incidente durante una gita al lago cerca, nonostante il grande dolore, di riscuotere il risarcimento assicurativo che le spetta. Le assicurazioni che dovrebbero garantire l’indennizzo sono però controllate da una compagnia più grande che a sua volta si appoggia su un’altra società irrintracciabile con sede a Panama. Un gioco di scatole cinesi che per una serie di cavilli burocratici rende impossibile il risarcimento se non a una cifra a dir poco ridicola.

La donna però non si scoraggia: intraprende un viaggio a Panama e pian piano scava e si insinua fra le pieghe del sistema. Grazie alla sua determinazione riesce a smuovere alcuni tasselli che, come le tessere di un domino, causano un piccolo terremoto portando alla rivelazione dei nomi dei clienti sparsi in tutto il mondo della società che sta in cima a tutte: la Mossack Fonseca & Co. Fatto che da quel momento rende ognuno di questi clienti processabile per frode fiscale. Fra di essi leader mondiali, funzionari di governo, parenti e collaboratori degli stessi e società e manager di varia natura.

La storia di Ellen – puro frutto di fantasia – è quindi solo un pretesto per mostrare il giro di interessi, clientele, relazioni e smisurate transazioni di denaro del quale la Mossack Fonseca è stata a capo per oltre tre decenni. E Soderbergh lo fa mostrando in prima persona proprio i due titolari della società panamense, che ha in realtà la forma di uno studio legale: Jürgen Mossack (Gary Oldman) e Ramón Fonseca (Antonio Banderas). Come in una sorta di farsa teatrale i due avvocati si rivolgono direttamente alla camera e spiegano come lentamente, approfittando dello sviluppo dell’alta finanza mondiale grazie al sistema capitalista esploso nel secondo dopoguerra, abbiano costruito un impero economico retto su una specie di illusione.

Un’illusione fatta di cifre, numeri, somme di denaro invisibili, che nessuno potrebbe mettere fisicamente su un tavolo o dentro una cassaforte. Per spiegarcelo – attraverso voli pindarici e divertissement puramente cinematografici – ci raccontano come dal baratto delle società primitive, che scambiavano una mucca per cento banane, si sia arrivati a una società in cui le banane le compriamo a credito. Questo scommettendo che il loro valore aumenti o scenda a seconda di determinate condizioni e il cui prezzo è stabilito da una sorta di scommessa. E in cui quindi non esistono né i soldi contanti né le banane, ma esiste sempre chi possa speculare su entrambi.

Potrà sembrare un tentativo di estrema semplificazione quello di spiegare l’economia globalizzata contemporanea con le banane. E per certi versi lo è. Ma come si diceva siamo nel campo della commedia e del meta-cinema usato come strumento di spettacolarizzazione e, a onor del vero, tutta la faccenda viene affrontata in alcuni momenti del film con una complessità maggiore. Eppure in quel racconto di speculazione basato sulla pratica dei contratti “futures” sta molto del senso della struttura sociale e culturale – quindi non solo economica – del mondo in cui viviamo.

“Panama Papers” non si limita a dire che in un sistema mondiale che favorisce (a volte tacitamente) l’offshore finanziario, la speculazione e l’elusione fiscale, i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Ci dice per esempio che quello nel quale viviamo è un sistema economico di cui siamo molto più protagonisti che antagonisti, anche se non ce ne rendiamo conto. Perché siamo funzionali ad esso, ne facciamo parte e in qualche modo, inconsapevolmente, lo ingrassiamo. Cercando di spendere il meno possibile nella stipula di un’assicurazione, chiedendo prestiti fiduciari per fare investimenti edilizi, persino pagando le tasse regolarmente o guardando un film come questo diventiamo parte di un aberrante sistema economico-finanziario – peraltro la società di produzione della pellicola ha sede in Delaware, lo stato americano che concede enormi sgravi fiscali alle aziende e in cui sono domiciliate migliaia di società di ogni tipo.

Di tutto questo la colpa non è certamente nostra. Semmai quello in cui viviamo è un mondo dominato da un denaro fantasma in cui le grandi aziende preferiscono investire sulle “promesse di guadagno future” che su prodotti reali: ciò significa che il vero prodotto siamo noi. E cioè gli unici che hanno del denaro “vero” da spendere. E chi se ne importa se su quel denaro sono costruiti sogni, aspettative, speranze per un futuro che non è solo speculazione e guadagno.
Certo, le cose sono più complicate di così, e ogni episodio che il film mette in scena sembra rimandare a un’infinità di storie, situazioni, dettagli, azioni e conseguenze impossibili da comprendere, enumerare e relazionare.

Tuttavia la sensazione che il film trasmette e a cui allude il titolo originale – che è “The Laundromat”, cioè letteralmente “lavanderia a gettoni” – è quella di abitare una gigantesca bolla in cui una grande lavatrice ripulisce e rimette in giro sempre la stessa, enorme quantità di denaro ma alla quale noi abbiamo accesso solo in minima parte. E la grande illusione sta nel credere di essere parte del gioco, anche quando dentro quella grande lavanderia a noi spettano solo le monetine.