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“Parasite” di Bong Joon-ho, disuguaglianza alla coreana

Recensione. La palma d’oro all’ultimo Cannes (in sala da oggi) ci mostra con amara ironia una Corea ricca e opulenta che nasconde un lacerante conflitto di classe. Costruendo così un semplice ritratto del mondo moderno o forse un campanello dall’allarme per il futuro del mondo globalizzato

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Essendo il cinema un’arte dell’immagine, spesso il significato intero di un film o il suo orizzonte di senso sono riassumibili completamente in una sola sequenza. A volte anche in un’unica inquadratura. Nel caso di “Parasite”, l’ultimo film del regista coreano Bong Joon-ho vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes di quest’anno, si tratta in realtà della messa in relazione fra due immagini. Ovvero quell’ideale accostamento dei panorami che si scorgono dalle finestre delle case che fanno da setting al film. Uno affaccia su un lussureggiante giardino privato con erba curata, alberi e cespugli mirabilmente potati e di un verde accecante. L’altro – al livello della strada – su un vicolo urbano dal quale, attraverso una grata, si vedono auto e moto parcheggiate, cumuli di spazzatura e le gambe e i piedi dei passanti. A volte qualche ubriaco che scambia la strada per una latrina.

Ecco, se vogliamo “Parasite” sta tutto qui. In questa semplice e limpida metafora della disparità di classe. Come se a creare la disuguaglianza fra i ricchi e i poveri non sia solo una questione di possesso, potere e privilegio, ma più che altro di sguardo. In altre parole la possibilità di osservare un orizzonte differente. E quindi di aspirare a un futuro diverso, le cui sembianze possono essere quelle di un imbuto di cemento maleodorante incorniciato da sbarre di ferro oppure quelle di un giardino zen in cui si sente il canto degli uccelli e l’erba profuma di estate. Mentre tutto quello che spaventa o atterrisce è accuratamente celato allo sguardo.

“Parasite” racconta di due famiglie di una grande città della Corea di oggi. La prima, composta da padre, madre e due figli ventenni – tutti disoccupati – vive al limite dell’indigenza, elemosina lavoretti giornalieri e cerca di sopravvivere con il minimo indispensabile. La seconda è invece una ricchissima famiglia che abita in una casa da sogno nella zona agiata della città. Il padre è il giovane amministratore delegato di un brand informatico di portata mondiale, mentre la moglie si occupa della casa. Hanno due figli: una ragazzina adolescente che studia al liceo e il fratellino che fa la seconda elementare e si crede un genio artistico.

Il figlio maggiore della famiglia povera – che non ha mai passato il test d’ingresso per l’università – riesce a farsi assumere da quella ricca per dare ripetizioni di inglese alla giovane figlia. A quel punto vede la possibilità di sistemare anche tutti i suoi familiari. Prima fa ingaggiare la sorella (tenendo celato il rapporto di parentela) come insegnante di sostegno per il figlio più piccolo spacciandola per una luminare dell’arteterapia. E poi insieme a lei cerca di approfittare con spregiudicatezza sempre maggiore dei benefici derivanti dalla posizione che occupa. Elemento che scatena un effetto domino in direzione tragedia.

Scritto e pensato con l’intenzione precisa di eludere qualsiasi adesione a un genere preciso e identificabile e mischiando abilmente le carte in tavola, il film di Bong Joon-ho è in realtà soprattutto una commedia. Più specificamente una black comedy, ma con tratti che ricordano la commedia all’italiana di Risi o Monicelli, raccontando una storia che sembra uscita dai nostri anni Sessanta. Elemento che fa capire da un lato la grande universalità del film e dall’altro come i conflitti sociali più aspri siano spesso figli di una politica economica globalizzata, com’è oggi quella coreana, e in ascesa, come lo era quella dell’Italia del boom.

Ma al di là dei paragoni è importante notare come il film di Bong tenda a mettere in risalto proprio l’aspetto più crudo del conflitto di classe. Fornendone un ritratto intensamente umano e lasciando sullo sfondo le indagini sociologiche e le strumentali analisi politiche: l’obiettivo invece è quello di mostrare le cose per quelle che sono, senza assegnare colpe ai personaggi o fornire loro giustificazioni rispetto ai comportamenti che assumono.
Sarebbe stato facile del resto, mettere in scena un padrone spietato, conservatore e tirannico nei confronti di dipendenti e domestici. Come lo sarebbe stato, allo stesso modo, mostrare una famiglia condannata alla povertà per colpa di qualche evento infausto o sfortunato. Invece niente di tutto questo.

Il ritratto della Corea di oggi che il regista suggerisce è quello di un paese in cui in conseguenza della globalizzazione e dell’economia capitalista le diseguaglianze appaiono sempre più polarizzate. Tuttavia non esistono buoni o cattivi, sfruttati o sfruttatori, padroni o subalterni. Almeno non nel senso ottocentesco (ma anche novecentesco) a cui questi termini rimandano. Le classi sociali nelle economie capitaliste del XI secolo non sono più un diritto di nascita, ma esistono in modo invisibile come dice Bong stesso. Anche se diversamente rispetto al passato, in effetti, le gerarchie di classe ci sono eccome. E fra ranghi e caste – che sono costruite essenzialmente su principi economici – ci sono linee di separazione quasi invalicabili.

Le due famiglie del film, se non entrassero in contatto per motivi di lavoro, sarebbero effettivamente invisibili l’una all’altra. Come nella metafora delle due finestre di cui si diceva, i loro occhi sono abituati e allenati a guardare orizzonti diversi e di conseguenza a pensare e immaginare in maniera diversa. Persino l’aspetto olfattivo – da sempre difficilissimo da restituire al cinema, ma qui reso in maniera mirabile – è differente. E nella sua camaleontica e scaltra abilità di dissimulazione l’unica cosa che la famiglia più indigente non riesce a scrollarsi di dosso è proprio quell’odore “da poveri”.

In questo senso è quasi inevitabile che nonostante il film non dia risalto in maniera esplicita ad alcun tipo di conflitto politico, la frizione fra due mondi, due sguardi e due prospettive tanto diverse finisca per esplodere con violenza.
Anche se questa esplosione, che si scatena nel finale, è a ben vedere poco più di una scintilla. Un impeto tutto interno. Sia perché da fuori non se ne riesce a individuare il motivo, né a spiegarlo del tutto, sia perché resta imprigionato dentro le mura di una casa – che non a caso è anche un bunker – e non sposta di un centimetro le posizioni e le convinzioni dei personaggi rispetto al loro ruolo nella storia.

In fondo “Parasite” si chiude esattamente con la medesima inquadratura con cui si era aperto. Quella della grata attraverso cui dal tinello della casa-scantinato si osserva lo squallore del vicolo antistante. Tutto quello che è successo – pur nella sua tragicità – non sembra aver modificato alcunché. In fondo ciò che resta è la stessa identica speranza di chi dal seminterrato di un appartamento scalcinato sogna di affacciarsi un giorno su un giardino lussureggiante. Costi quel che costi.