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Santa Chiara, il Pinocchio (di Del Toro), quell’asino di EO, le Otto montagne e Valeria Bruni Tedeschi

Articolo. Non è Natale senza un po’ di bel cinema: meglio allora non farsi trovare impreparati. E per evitare cinepanettoni (ma esistono ancora?) e blockbuster di poca sostanza abbiamo preparato per voi cinque film, già in sala (o su Netlix), oppure in arrivo le prossime settimane. Insomma, da qui alle vacanze ce n’è per tutti i gusti

Lettura 6 min.
«Pinocchio di Guillermo Del Toro» di Guillermo Del Toro e Mark Gustafson

Molti di noi fin da piccoli hanno il ricordo del Natale come tempo di cinema. Un’abitudine da non perdere nemmeno da adulti, perché le sale cinematografiche rimangono luoghi culturali fondamentali, e non c’è schermo casalingo da chissà quanti pollici che possa sostituire la magia del buio, del silenzio, la luce dello schermo che travolge, le storie che rapiscono. Forse il segreto per rimanere vicini al cinema è nella qualità di ciò che viene proposto: film che lascino qualcosa terminata la proiezione, che non siano solo puro intrattenimento, che parlino di noi e del nostro tempo e siano spunto di riflessione, discussione con chi si è deciso di spendere un paio d’ore di fronte alla bellezza, antica e sempre nuova, dello schermo. Ve ne proponiamo cinque che provano ad essere così.

Forever Young» di Valeria Bruni Tedeschi

Come sanno più o meno tutti Valeria Bruni Tedeschi, figlia di un industriale torinese, da piccola, nei primi anni Settanta, emigrò in Francia insieme alla famiglia. La causa di questa “fuga” fu la preoccupazione dei genitori data dalla complicatissima temperie politica e sociale italiana, all’interno della quale i frequenti sequestri di persona si sommavano alla stagione del terrorismo e della lotta armata. Nel paese transalpino mentre la sorella Carla diventava una super-modella di fama mondiale, lei ha iniziato a recitare, affermandosi come una delle attrici più apprezzate della sua generazione.

In «Forever Young» Bruni Tedeschi racconta in forma autobiografica i propri vent’anni, quelli in cui ha iniziato a recitare (più per vincere la noia che per vocazione) scoprendo la passione per il teatro e il cinema, innamorandosi, stringendo amicizie e facendo gli incontri che cambiano la vita. La regista ripercorre il periodo in cui studiò recitazione all’École des Amandiers di Nanterre («Les Amandiers» in italiano «I mandorli» è anche il titolo originale) durante gli anni Ottanta sotto la direzione di Patrice Chéreau, l’autore che poi la lanciò al cinema (qui interpretato dall’ex compagno della regista Louis Garrel).

Un viaggio sentimentale nel passato che mischia ricordi e fantasie (i nomi fittizi dei personaggi, la storia d’amore fra lei – che nel film si chiama Stella (l’attrice Nadia Tereszkiewicz) – e il compagno Étienne (Sofiane Bennacer) che riecheggia «Un tram che si chiama Desiderio») e dipinge con un velo di nostalgia e innegabile suggestione i ricordi, anche terribili (segnati dall’esplosione dell’Aids), dei propri vent’anni. Il tutto attraverso la forma di un romanzo di formazione universale, che racconta l’esistenza, i ricordi e i sentimenti sfrenati che tutti proviamo o abbiamo provato almeno una volta.
(Conca verde/Uci Orio/Anteo Treviglio)

«Chiara» di Susanna Nicchiarelli

Susanna Nicchiarelli si confronta con uno dei grandi canoni della cultura italiana, sia in senso spirituale che cinematografico: la vita di Chiara e Francesco d’Assisi. Forse i due santi più amati e celebrati della tradizione secolare ecclesiastica, almeno nel nostro Paese, ma anche oggetto di studi – accademici e religiosi – da quasi mille anni. La regista romana costruisce un racconto che mette al centro Chiara, lasciando Francesco un po’ in disparte, e non somiglia per niente ai film sullo stesso tema che sono venuti prima – a partire dal celebre «Fratello sole, sorella luna» (1972) di Franco Zeffirelli.

In «Chiara» gli attori, tutti giovanissimi, recitano in italiano volgare, cantano, danzano – trasformando il film in un vero e proprio musical – e danno risalto all’intento di Nicchiarelli di fare di Chiara un’icona femminista ante litteram . Capace non solo di sfidare l’istituzione della Chiesa cattolica battendosi per la propria libertà di dettare una regola monacale tutta al femminile (come poi sarà), ma anche di costruire un proprio percorso spirituale rigorosissimo senza alcun tentennamento, indecisione o incertezza (come forse non è stato). Affermandosi dunque come un’eroina dei nostri tempi, più che dei suoi.

La Chiara del film, ha una personalità di gran lunga più forte e risoluta di quella dello stesso Francesco. Gli autori – che pur si avvalgono della consulenza accademica della medievista Chiara Frugoni, una vera istituzione degli studi francescani, scomparsa poco prima della fine delle riprese e a cui il film è dedicato – infrangono proprio quel canone che si diceva, prendendosi la libertà di dipingere un ritratto inedito e completamente differente di una figura così amata e così centrale della cristianità. Una Chiara giovanissima, ribelle e dal carattere inflessibile che danza, canta e… ascolta Cosmo!
(Capitol/Anteo Treviglio)

«Pinocchio di Guillermo Del Toro» di Guillermo Del Toro e Mark Gustafson

Scordatevi la Fata turchina, Mangiafuoco e il Gatto e la Volpe. Quello di Guillermo del Toro non è il «Pinocchio» che conoscete. Certo il protagonista si chiama Pinocchio ed è un burattino di legno, ci sono Geppetto, Lucignolo e il Pescecane, ma il romanzo di Collodi per il regista messicano premio Oscar è solo uno spunto per affondare una delle favole più celebri della cultura occidentale dentro il suo universo gotico fatto di atmosfere dark. Del Toro insieme agli altri autori trasferisce l’azione del libro dalla fine dell’Ottocento al Ventennio fascista, accorpa più personaggi in uno (il Conte Volpe è una crasi fra Mangiafuoco e la Volpe), ne trasforma completamente altri (la Fata Turchina diventa una specie di demone dell’aldilà con le sembianze di sfinge, Lucignolo un bimbo dispettoso ma dall’animo innocente figlio di un gerarca fascista) e ne aggiunge alcuni (la scimmia Spazzatura, il dottore, il podestà…) e assegna al Grillo parlante (rinominato Sebastian J. Cricket) il ruolo del narratore.

Ne viene fuori una favola nera, piena di morte, tristezza e sopraffazione e con momenti davvero crudi (che per la verità non mancavano nemmeno nell’originale) in cui, come in molto cinema dell’autore, le imperfezioni, le mancanze e le sconfitte della vita diventano valori positivi (a partire dall’aspetto fisico di un Pinocchio incompleto, distorto e sgraziato che non vuole affatto diventare un bambino vero).

Ma soprattutto emerge una riflessione assolutamente straordinaria sulla paternità (contrapposta al patriarcato di stampo fascista ), sulla difficoltà di essere padri e sul rapporto con i figli e le generazioni più giovani (nel film non c’è nemmeno un personaggio femminile e questa è già una novità assoluta per i nostri tempi). Fra i tanti adattamenti di «Pinocchio» – animazione e live action – tutti uguali che continuano a essere prodotti (solo nel 2022 ne sono già usciti tre), forse questo, nella sua stramba originalità, è davvero l’unico possibile.
(Conca verde/Netflix dal 9/12)

«EO» di Jerzy Skolimowski

Jerzy Skolimowski è uno dei grandi vecchi del cinema europeo. Polacco, classe 1938, più di trenta film alle spalle come regista e sceneggiatore, ha vinto premi a Berlino, Cannes, Venezia e in tantissimi altri festival di cinema in tutto il mondo. Un monumento vivente insomma. È chiaro che il suo ritorno alla regia – da cui mancava da sette anni – non potesse che diventare uno dei piccoli eventi di un anno cinematografico piuttosto avaro di opere notevoli.

Al festival di Cannes, lo scorso maggio, il suo nuovo lavoro era tra i film più attesi e, come è giusto per un autore tanto celebrato, ha fatto molto discutere, dividendo aspramente sia il pubblico sia la critica. «EO», girato e coprodotto fra Italia e Polonia, è di fatto una sorta di remake – e di omaggio – dichiarato a uno dei più grandi capolavori della storia del cinema: «Au hasard Balthazar» (1966) di Robert Bresson. E come quest’ultimo racconta la storia di un asino, Eo, che passa da un padrone all’altro diventando testimone della miseria e della meschinità degli esseri umani con cui si scontra. Maltrattato, sfruttato, abbandonato e solo raramente oggetto delle attenzioni e dell’amore di qualcuno, Eo diventa il simbolo di tutto ciò che l’umanità ha smarrito, dimenticato, lasciato indietro. Fin qui tutto chiaro e del resto questo messaggio, nella sua cristallina semplicità, è ciò che ha reso quello di Bresson uno dei più grandi film di sempre.

Ma siamo sicuri che abbia ancora valore nel 2022? Skolimowski pensa di sì, e probabilmente ha ragione lui, tuttavia il suo film, che procede per impressioni, episodi e situazioni senza soluzione di continuità, appare troppo slegato dal presente, sia dal punto di vista narrativo che da quello dell’immagine. In fondo che il mondo là fuori faccia paura e sgomenti ogni giorno di più e che quel poco di umanità che resta sia sempre più difficile da rintracciare lo sappiamo tutti fin troppo bene. Senza il bisogno che nessuno ci dica, per l’ennesima volta, che i veri asini in tutto questo siamo noi.

(dal 21/12)

«Le otto montagne» di Felix van Groeningen, Charlotte Vandermeersch

Premio Strega 2017, «Le otto montagne» di Paolo Cognetti è uno dei romanzi italiani di maggior successo degli ultimi anni, anche – e forse soprattutto – all’estero. Non stupisce quindi che l’adattamento cinematografico, passato in concorso al festival di Cannes di quest’anno, sia firmato da due registi belgi, nati e cresciuti cioè dove le montagne, praticamente, non esistono. Ed è meno singolare di quanto possa sembrare questo aspetto, proprio perché la suggestione del racconto di Cognetti, la sua forza descrittiva e la capacità di creare attraverso le parole le atmosfere uniche racchiuse nelle vette e nei pendii delle Alpi italiane, arrivano forse con maggior forza a chi quelle montagne non le ha mai viste o vissute prima.

E il film in effetti questa suggestione la porta tutta sullo schermo, usando la montagna come un vero e proprio personaggio e esprimendo attraverso ogni immagine il valore spirituale e quasi mistico che la montagna trasmette a chi la ama. Del resto la storia, fedelissima al romanzo, racconta proprio di un amore tormentato, osteggiato, incompreso: quello di due uomini, amici fin da bambini, per la montagna. Per Bruno, nato fra le malghe, è quasi un imprinting, una scelta naturale, mentre per Pietro, ragazzo di città, qualcosa da conquistare con il tempo: una questione sentimentale divisa fra i traumi dell’infanzia e il ricordo agrodolce del padre.

È nelle pieghe del rapporto fra i protagonisti e nello spazio della loro amicizia che il film inserisce la montagna: descrivendola come un rifugio, come unica alternativa al caos dell’esistenza, che aggiunge alla bellezza della propria essenza l’elemento della fatica fisica come condizione inevitabile e necessaria alla conquista. E che in questo racconto, in cui qualche volta gli indugi estetici saturano eccessivamente lo schermo, diventa spettatrice immutabile dei processi naturali dell’esistenza: osservando i bambini diventare adulti, i figli diventare padri, i padri scomparire per sempre. E poi ricominciare da capo.
(Dal 22/12)

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