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“Un giorno di pioggia a New York”, il miglior Allen è quello newyorkese

Recensione. Woody torna al cinema con una commedia romantica che è un film sul tempo. Un racconto che sembra uscito dal passato, ma che guarda al futuro. Con la Grande Mela a fare ancora una volta da musa ispiratrice

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Nel giro di una settimana sono usciti al cinema due film che un po’ per gli stessi motivi stanno facendo discutere molto. La cosa strana però è che tutte queste discussioni più che riguardare i film stessi, sono costruite intorno alle vite private dei registi che li hanno diretti. Insomma dopo Roman Polański (di cui abbiamo parlato qui) tocca a Woody Allen.
Le questioni sono quelle note, legate al movimento #metoo, che hanno portato una larga parte di colleghi, addetti ai lavori e pubblico, soprattutto negli Usa, a emarginare e ostracizzare le opere dei due registi. Nel caso di Allen la portata della questione è facilmente comprensibile. Il suo ultimo film “Un giorno di pioggia a New York” – bloccato per quasi un anno dopo che il distributore Amazon si è tirato indietro – oltre a essere il primo dal 1982 a non uscire nell’anno consecutivo al precedente, negli Stati Uniti non ha ancora una data di distribuzione e tutto lascia pensare che non ce l’avrà mai.

La verità è che rimane un peccato sminuire un film rifiutando di scinderlo dal suo autore. Ciò vale comunque la si pensi e con la giusta e necessaria considerazione dei movimenti nati sulla scia del #metoo. Ed è ancora più dannoso farlo nel caso di “Un giorno di pioggia a New York”: perché è senza dubbio uno dei migliori film di Allen di sempre.
Un’opera che dimostra una volta per tutte quanto il regista di “Io e Annie” abbia bisogno di New York per trovare la propria dimensione ideale non solo in termini artistici, ma anche umani, intimi e personali. Dentro NY Allen sa pensare, inventare e osservare le cose con l’originalità, l’arguzia e la sensibilità di chi conosce talmente a fondo la materia da scorgervi sempre qualcosa di nuovo – nonostante gli ottantatré anni e i quasi cinquanta film all’attivo.

Dentro questa New York del 2019 che gira vorticosamente intorno alle vite di due ragazzi poco più che ventenni aiutandoli a trovare la propria strada – anzi, spingendoceli bruscamente – Allen confeziona un film maturo sul tempo che passa e sul mondo che cambia. L’intento è di parlare soprattutto a chi le proprie scelte le ha fatte da tempo e le carte se l’è giocate (quasi) tutte. Eppure non c’è alcuna nostalgia posticcia, alcuno sguardo malinconico e il romanticismo intorno al quale ruotano le vicende è quello lieve delle vecchie commedie hollywoodiane a cui l’autore stesso dice di ispirarsi.

Gatsby Welles (un nome che è già una dichiarazione di intenti interpretato da Timothée Chalamet) ha ventidue anni, viene da una famiglia dell’alta borghesia newyorkese, ha un’istruzione di primissima qualità, è brillante, colto e abilissimo nel gioco d’azzardo. Studia in una prestigiosa università privata nel nord dello stato di New York per volere della madre, che preferisce tenerlo lontano dalle distrazioni della metropoli, ed è insofferente tanto al proprio status sociale quanto a obblighi e privilegi che da esso derivano.

Il nostro ha una fidanzata, Ashleigh (Elle Fanning), che studia nel suo stesso college. Viene dall’Arizona e ha tutte le caratteristiche della campagnola (seppure di famiglia agiata) catapultata in un mondo – quello esclusivo delle élite culturali della east coast – che non comprende fino in fondo ma dal quale è completamente conquistata. Ashleigh è molto diversa da Gatsby: è solare, entusiasta e con un carattere brioso. Vive con fervida passione gli studi e l’esperienza come collaboratrice nel giornale del college.

Quando le viene assegnata un’intervista a un celebre regista da tenersi a New York, Gatsby organizza un fine settimana ideale, pensato nei minimi dettagli perché sia un weekend romantico e speciale. Subito dopo l’arrivo però la coppia si divide e per una serie di circostanze non riesce più a incontrarsi se non a tarda notte e giusto poco prima di lasciare l’hotel e ripartire.
La città ha un piano tutto suo” esclama a un certo punto del film il giovane protagonista. Come se NY fosse un personaggio in carne e ossa o un dispositivo che pensa e agisce al di sopra delle necessità di tutti e al cui volere ineluttabile bisogna adattarsi per forza.

In realtà la Grande Mela, multiforme e cangiante, si trasforma intorno ai personaggi e diventa la loro guida. Li costringe a confrontarsi con la vita e il mondo, mettendo in dubbio ogni presunta certezza. New York, ammantata per tutto il film di una pioggia pallida e dei colori autunnali esaltati dalla fotografia di Vittorio Storaro, nello spazio di un fine settimana riesce a trasformare letteralmente i due protagonisti. Restituendo loro la malinconica consapevolezza della fugacità dei sentimenti, dell’imprevedibilità delle scelte e dell’ineluttabilità dello scorrere del tempo.

Allora Gatsby, forse per la prima volta, alla fine del film sa esattamente cosa fare, dove andare e cosa vuole. La sua peregrinazione per quella Manhattan che conosce come le proprie tasche ma all’interno della quale finisce per smarrirsi, una realtà fatta di incontri, confronti, piccoli litigi e rivelazioni sconvolgenti, gli fa realizzare che tutto quello che vuole è correre al Delacorte Clock di Central Park entro le sei del pomeriggio. Perché ha finalmente chiarito il rapporto con la fidanzata, con la madre e anche con se stesso. Del resto, come nelle migliori e più autentiche commedie hollywoodiane, è un bacio (a Selena Gomez) che gli cambia la vita.
Ashleigh invece sperimenta tre diverse forme d’amore – platonico, fisico ed emotivo – con tre uomini diversi (che loro malgrado non riescono mai a possederla) e raggiunge in un solo giorno una vetta talmente alta da non poter far altro che precipitare. Trovandosi mezza nuda sotto la pioggia in piena notte, indifesa, forse delusa e con un pizzico di incertezza in più, eppure consapevole e determinata fare tesoro di quell’enorme bagaglio di esperienze.

È in questi estremi capaci di sfiorarsi, toccarsi, danzare insieme e poi allontanarsi di nuovo, rappresentati da Gatby e Ashleigh, che il film assume le sembianze di una favola in levare. Che dà alla malinconia un senso costruttivo e fa della pioggia un simbolo di rinascita. Il risveglio dal sogno – che sia l’aspirazione di arrivare in alto o l’intenzione di immergersi nella serenità dei ricordi – è forse brusco, ma non per forza amaro.
L’insolito ottimismo di Allen sta qui, nell’intenzione di guardare al futuro se non con speranza o ottimismo, almeno con la certezza di sapere che qualcosa di nuovo continuerà ad accadere. E potrà durare per sempre o soltanto lo spazio di un bacio sotto la poggia.

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