93FE310D-CB37-4670-9E7A-E60EDBE81DAD Created with sketchtool.
< Home

Una fuga d’amore al cinema: con Sciamma, “Freaks Out”, “Ultima notte a Soho”, “Annette” e Wes Anderson!

Guida. Senza più distanziamento e con le sale a pieno regime il pubblico latita. Proviamo a risvegliarlo dal torpore autunnale suggerendo alcuni dei titoli in uscita. Musical, horror, film d’autore e sì c’è pure il nuovo lavoro dell’autore di “Budapest Hotel”

Lettura 6 min.
Freaks Out di Gabriele Mainetti

Nonostante il ritorno del 100% della capienza, una programmazione ricchissima e un clima che scoraggia la vita sociale all’aperto, le sale cinematografiche non se la passano poi tanto bene. Cosa piuttosto preoccupante visto che dopo un anno e mezzo di lockdown e una ripresa lentissima, e a singhiozzo, questo ritorno alla normalità sembrava poter rappresentare una nuova chance per la sala, già profondamente in crisi nel periodo pre-pandemico. Tutto invece sembra essere tornato a come era prima del covid, con pochi spettatori al cinema e la generale impossibilità di reggere la concorrenza delle piattaforme.

Eppure non solo, come si diceva, di film fra cui scegliere ce n’è eccome e per tutti i gusti, ma a differenza di quanto accadeva durante il periodo delle chiusure tutti questi film sono disponibili soltanto in sala. E visto che non c’è alcuna alternativa – nemmeno illegale! – per vedere la maggior parte dei titoli di richiamo in uscita in questi mesi e che la proposta qui da noi è davvero vastissima, proviamo a fare un piccolo appello a tutti per tornare al cinema. Anche più volte la settimana e non solo nei week-end. E come abbiamo iniziato a fare già da qualche tempo ci aggiungiamo i nostri consigli di visione, con un po’ di cose già disponibili e altre in arrivo…

“Petite Maman” di Céline Sciamma

Un piccolo grande film di una delle registe più talentuose del cinema europeo. Girato nella seconda parte del 2020 e per questo condizionato dalle restrizioni causate dal Covid non è però un film sulla pandemia. È un’opera libera, chiusa nello spazio circoscritto di un bosco che è anche lo spazio dell’immaginazione, del gioco e della magia. Perché al centro della storia c’è una bambina di otto anni, Marion, che ha appena perso la nonna materna e mentre la madre vive il proprio dolore privato lei rimane con il padre in una casetta nel bosco, l’uomo però a un certo punto esce dal racconto e Marion incontra una coetanea con cui inizia un’amicizia che la porta in un’altra casa, in un altro mondo e in un altro tempo.

Non serve svelare il twist che fa da perno alla narrazione per dire della grande bravura della regista nel raccontare con tocchi lievissimi e delicati la complessità dei sentimenti, la vita, la morte, il dolore e la difficoltà degli affetti attraverso gli occhi di una bambina. E facendo però un film adulto, che parla a tutti e usa il femminile come metro e sguardo sul mondo. Un mondo dove si annidano i traumi e le paure più universali, ma anche gli strumenti per superarli e per diventare grandi. A qualunque età. (Capitol)

“Freaks Out” di Gabriele Mainetti

Non siamo abituati a film come questi in Italia. Nel senso che produzioni di tale portata sono rarissime nel cinema di casa nostra. Vedere per credere: “Freaks Out” è un colossal in piena regola, con un cast internazionale, effetti speciali sbalorditivi, una durata esagerata e un’ambientazione storica accuratissima. Roba da cinema americano. A Gabriele Mainetti dopo il successo di “Lo chiamavano Jeeg Robot” è stata data carta bianca e tutto il supporto tecnico-economico-produttivo possibile. Forse un po’ troppo visto il risultato. Ovvero un film su dei freak-supereroi che salvano il mondo durante la Seconda guerra mondiale, sconfiggendo i nazisti, unendosi ai partigiani e insegnando a tutti che essere diversi, emarginati e mostri è una cosa bellissima.

Non fraintendeteci, il messaggio – seppure decisamente inflazionato – è cosa buona e giusta, così come la parte da cui il film sceglie di stare (e ci mancherebbe). Il problema sta soprattutto nella grande ambizione del regista, che vuole mettere insieme autorialità e intrattenimento, storia del cinema (citazioni altissime: da Tod Browning a Fellini, fino a Rossellini e Ferreri) e pop culture, mischiando la Storia con la fiaba e “Bella ciao” con i Guns’n’Roses. Un pasticciaccio brutto, ma talmente unico da meritarsi una visione. Fidatevi: ne vale la pena. (Capitol/Uci Orio e Curno/Arcadia Stezzano/Anteo Treviglio)

“La scelta di Anne – L’Événement” di Audrey Diwan

Vincitore del Leone d’oro all’ultima Mostra del cinema di Venezia “L’Événement” è un film che non si dimentica facilmente. Perché parla di un tema caldo, sensibile (come si diceva una volta) e divisivo, anche se non dovrebbe esserlo. Parla di aborto. E lo fa senza raccontare nessuna “scelta”, al contrario di quello che il titolo italiano cerca di far credere infatti, nella Francia (come nell’Italia) del 1963 nessuna scelta era possibile. E per la verità Anne, la studentessa universitaria protagonista, la sua scelta la fa sin dall’inizio.

Il film – tratto dal romanzo autobiografico di Annie Ernaux – mostra la tenacia della ragazza nel cercare di praticare l’aborto in un paese e un’epoca in cui l’aborto è illegale. E non risparmia nulla della sofferenza psicologica e fisica alla quale è costretta. E del suo scontro con i pregiudizi degli altri – i medici, i compagni, le amiche e anche il padre del bambino. A Diwan però interessa soprattutto lavorare sull’immagine e sul corpo, costruendo quasi un film horror. In cui l’orrore sta nelle torture cui Anne si sottopone, soffrendo e disperandosi per la paura di fare qualcosa di sbagliato. E di sentirsi sbagliata.

“The French Dispatch” di Wes Anderson

Attesissimo – per quasi due anni! – e già diventato una specie di oggetto di culto per i fan del regista ecco finalmente “The French Dispatch”. Sicuramente uno dei film più personali di Anderson, pieno di tutte le cose tipiche del suo cinema – il manierismo e le geometrie della forma, il vintage artefatto delle scenografie, i tableau vivant, i colori autunnali, gli inserti animati e tutti, ma proprio tutti, i suoi attori feticcio – ma anche di una visione del mondo profondamente sua. Anderson ricrea l’ambiente e la struttura di un immaginario periodico culturale americano (che sembra il New Yorker e forse lo è) ma edito e realizzato a Parigi, con una divisione a episodi, ognuno dedicato a una sezione della rivista.

È un espediente per tracciare e mettere in immagini un mondo ideale che esiste solo nella sua testa e a cui dà vita mischiando storie, memorie, fantasie e ricordi immaginari. Prendendo in prestito pezzi dalle forme più disparate della storia dell’arte francese e europea (pittura, letteratura, architettura, cinema) e riflettendo sull’appropriazione culturale americana dettata da una sorta di complesso di inferiorità incolmabile. E il risultato è un film coltissimo, intelligente e brillante. Letteralmente un viaggio nella mente di uno degli autori più originali e stravaganti del nostro tempo. In cui niente è vero e niente somiglia alla realtà, ma sembra esistere per davvero.

“Ultima notte a Soho” di Edgar Wright

Dopo il successo di “Baby Driver” Edgar Wright torna con un film ancora più chiassoso e sgargiante. Al centro della storia c’è una ragazzina senza genitori, cresciuta con la nonna, che arriva a Londra dalla campagna per studiare moda. È un po’ ingenua, fatica a inserirsi e ama lo stile, la musica e l’atmosfera della “Swinging London” degli anni Sessanta. E la notte sogna di viverla quell’epoca magica, fino a immedesimarsi in una giovane cantante che si fa strada nei nightclub di Soho dei mid-sixties.

Ben presto però il sogno diventa sempre più reale, fino a trasformarsi in un incubo e il film vira brutalmente sulle tonalità horror… Non è per forza un difetto quello di cambiare repentinamente strada in un film di genere e in “Ultima notte a Soho” c’è molto per cui divertirsi. Tuttavia l’accumulo di situazioni, personaggi, temporalità, musiche, citazioni, twist narrativi e chi più ne ha più ne metta, rischia di far deragliare la storia. Wright è un regista pieno di idee e dallo stile personalissimo di cui sentiremo parlare per molto tempo, peccato che qui si perda per strada e gli intenti politici, in direzione #metoo, gli confondano un po’ troppo le idee.

“Annette” di Leos Carax

“Annette” è un musical, diretto da uno degli autori più visionari, istrionici e non riconciliati del cinema contemporaneo – e con le musiche pop-rock degli Sparks – ma pur sempre un musical in piena regola. Quindi racconta una storia molto semplice e lo fa caricandola di istinti, pulsioni e sentimenti essenziali, vividi, universali. Come un’opera lirica. E non è un caso che la protagonista (Marion Cotillard) sia una cantante lirica di successo, mentre il suo compagno (Adam Driver) è uno stand-up comedian altrettanto famoso. Dal loro travolgente amore nasce una bimba, Annette – che nel film ha le sembianze di un bambolotto – ma lentamente il loro matrimonio si sfalda.

La tragedia come in ogni melodramma tradizionale è dietro l’angolo e la redenzione pure. Ma al centro c’è questa bambina che parla, vive, giudica, punisce e canta – con una voce celestiale – ma non riesce a diventare umana, perché il mondo degli umani, degli uomini intesi come maschi, è troppo respingente, brutale, ferino per riuscire a viverci dentro. Sarà anche grazie a lei che questo mondo troverà un po’ di pace e i sentimenti, quelli autentici, trionferanno. Ma forse, ci dice il regista, è solo rappresentazione, è solo musica. O cinema. Ah, se anche la vita fosse così!

“La persona peggiore del mondo” di Joachim Trier

Essere peggiori a volte aiuta. Con buona pace di giudici, moralisti e buonisti di ogni sorta. Anche se la protagonista del film, Julie, non è affatto una brutta persona. Ma una ragazza, giovane e affascinante, che cerca la propria strada e il proprio posto nel mondo. Per farlo si preoccupa di se stessa più di quanto non faccia degli altri, cambia continuamente idea su cosa le piace e cosa no e soprattutto cambia lavori, passioni, case, amicizie e fidanzati…

Quella del regista norvegese Joachim Trier è una comedy-drama modernissima capace come pochi altri film di cogliere lo spirito del contemporaneo. Lo fa raccontando la caducità e l’insicurezza del mondo di oggi con grande profondità e usa il corpo della bravissima Renate Reinsve – meritatamente premiata al Festival di Cannes come migliore attrice – per costruire un personaggio complesso, con una personalità eclettica e cangiante. E in realtà molto più sensibile di quanto appaia, capace di amare, soffrire e comprendere il dolore proprio e degli altri. A pensarci bene Julie è più di un personaggio, è uno stile di vita, un mondo, è qualcuno che abbiamo conosciuto tutti almeno una volta nella vita. O magari lo siamo stati. E senza per questo esserci sentiti peggiori.