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Yoon C. Joyce, una battaglia per la multietnicità nel cinema

Intervista. Intervista all’attore italo-coreano testimonial dell’IFF – Integrazione Film Festival

Lettura 5 min.

Yoon C. Joyce è il testimonial dell’IFF – Integrazione Film Festival. La rassegna di cinema internazionale dedicata all’integrazione interculturale promossa da Cooperativa Ruah, in programma a Bergamo e Sarnicodal 10 al 14 aprile.

Lui, classe 1975, è un attore italiano (la “C” sta per Cometti) ma di origini coreane, e a voler essere precisi è l’unico attore asiatico professionista in Italia. Nato a Seul in Corea del Sud, adottato da piccolo da una famiglia bergamasca, ha girato il mondo sin da giovane con i genitori per il lavoro del padre. Poi ha continuato anche da grande sui set cinematografici, dopo gli studi di recitazione in Italia e negli Stati Uniti. Quarantatré film alle spalle, il primo a sedici anni e poi pellicole che hanno partecipato anche a concorsi e festival internazionali. Il tutto gli ha permesso fra l’altro di lavorare con nomi grossi come Martin Scorsese, Ridley Scott e Leonardo di Caprio. In Italia invece quasi solo ruoli “da cinese”.

“Per me questo Festival coincide con una battaglia che porto avanti da tantissimi anni in qualità di attore. È la materializzazione di quello che sono e della mia essenza, contro ogni tipo di stereotipo. E un’apertura al cinema verso il concetto di multietnicità e di conseguenza di internazionalizzazione”.

MV: Yoon, per anni in giro per il mondo, poi l’approdo a Bergamo.

YCJ: Allora non c’era l’immigrazione che c’è oggi. Forse in quegli anni ero l’unico bambino con gli occhi a mandorla. Abituato poi a frequentare scuole internazionali, mi appariva come una realtà diversa.

MV: Diversa e tutta da scoprire. Qui hai conosciuto il rapporto fra cinema e integrazione.

YCJ: Per me la questione dell’integrazione ha un valore catartico: quando ho scoperto che la recitazione nel cinema poteva diventare uno strumento per comunicare concetti legati alla multietnicità e internazionalità, allora è diventato un obiettivo importante. Il mio impegno riguarda la questione degli attori dai tratti non caucasici, che in Italia hanno spesso ruoli stereotipati e secondari. Il mio obiettivo è diventato quello di cercare ruoli non stereotipati, non legati all’essere asiatico. Insomma trovare progetti di portata più internazionale.

MV: È cambiato qualcosa da quando hai cominciato a lavorare in questo mondo?

YCJ: Negli anni Novanta mi offrivano sono ruoli “da asiatico”. Ad un certo punto me ne sono andato negli Stati Uniti. Ho iniziato con piccole produzioni e poi sono arrivate anche quelle grosse, ma il mio intento era farmi conoscere in Italia, perché sono italiano e perché volevo portare qualcosa di nuovo nel mio Paese.

MV: Poi le cose sono cambiate?

YCJ: Nel mio settore, i più grandi cambiamenti li ho visti negli ultimi cinque-sei anni. Cinematograficamente parlando, penso che la nuova generazione stravolgerà tutto. Lo capisco anche dal fatto che raccontando a giovani registi la realtà che ho vissuto non si capacitano. Era un’altra epoca. Ci vorrà ancora una decina di anni per radicalizzare le cose, ma siamo a buon punto. Dico così anche alla luce della mia esperienza. Saranno quattro o cinque anni che non ricevo più ruoli stereotipati. Arrivano invece proposte di interpretazione in film di fantascienza, thriller, azione, una varietà che non esisteva in Italia fino a un decennio fa e questo mi fa ben sperare.

MV: Quando la svolta sarà definitiva?

YCJ: Quando attori con tratti somatici non caucasici non faranno più ruoli secondari. La grande pretesa del cinema italiano oggi è bucare a livello internazionale, creare premesse per vendere all’estero. Ma ci sono ancora le commediole all’italiana che sono comprensibili sono da un pubblico italiano, unico a poterne ridere. Poi, mi permetta di dire una cosa.

MV: Certo.

YCJ: Basta con le storie di mafia. Non contesto la qualità perché ci sono prodotti molto belli e fatti davvero bene. Ma se vogliamo dare un’immagine nuova dell’Italia si devono abbandonare certe storie.

MV: Insomma raccontare un’Italia diversa…

YCJ: Poi aggiungo: considerando che nelle giurie dei festival internazionali ci sono rappresentanti di minoranze etniche, come faranno a sostenere un film italiano dove ci sono italiani, ad esempio, di origine africana o asiatica che recitano in ruoli minori? Spesso sono delinquenti o “poverini”, mai protagonisti o co-protagonisti. Inoltre, basta con il pietismo: questo non è cinema d’integrazione.

MV: Cos’è, quindi, il cinema d’integrazione?

YCJ: Cinema di integrazione è quando riusciremo a creare film, e gli americani hanno raggiunto un buon livello, dove attori afro-italiani o asiatico-italiani reciteranno ruoli normali. Senza giustificare la loro appartenenza etnica o la loro provenienza. Pensiamo a Will Smith o Denzel Washington: sono attori statunitensi, punto. Non giustificano la loro provenienza ad ogni ruolo che interpretano.

MV: Al cambiamento però deve partecipare anche il pubblico, no?

YCJ: Nel 2008 ho fatto il film “Se chiudi gli occhi” di Lisa Romano, che ha vinto il Grand Prix Annecy Cinéma Italien. Tratta un soggetto serio e forte come il traffico di organi. Io recitavo il ruolo di un cinese nato e cresciuto in Sicilia, che quindi aveva un forte accento siciliano. Nell’anteprima, durante una scena violentissima, parlavo con accento siciliano forte. Risate dal pubblico, ma dopo due minuti la gente aveva capito che non era una satira, che ciò che stava succedendo era serio. Questo mi ha fatto riflettere: le persone non sono abituate, quindi vanno istruite. Per anni la gente è stata abituata ad un cinema di bassa qualità, ma il cinema italiano adesso ha le possibilità di cambiare e fare qualcosa di nuovo: le storie, ad esempio, sono determinate anche dai cast che abbiamo a disposizione. Tutti i cast sono caucasici: se fossero multietnici, le storie automaticamente si internazionalizzerebbero.

MV: In America è diverso?

YCJ: Le produzioni americane, avendo più budget, sono più variegate per attori, cast e produzione, quindi c’è più spazio per altre etnie. Il cinema italiano dovrebbe usare le proprie potenzialità per raccontare con originalità. Il terreno è molto fertile, semplicemente serve la semenza giusta. Quindi i soggetti giusti, gli attori giusti: adesso siamo pronti. Non ci sono più scuse. Quando lo capiranno pure i produttori che la multietnicità è una ricchezza, vedranno anche arrivare al cinema una grande fetta di pubblico che oggi sta a casa. Il cinema è un veicolo potente, che può riuscire a lanciare mode, pensieri, cambiare situazioni e lanciare un messaggio d’umanità. Se riuscissi nel mio intento avrei dato un senso in più al mio essere attore.

MV: Perché speri che il pubblico partecipi al Festival?

YCJ: Potrebbe portarsi a casa una sensibilità diversa e smettere di pensare che la propria etnia sia al centro del mondo. Quando verrà meno questa visione etnocentrica, allora sarà terreno fertile per creare qualcosa di nuovo.

MV: Ci racconti qualche ricordo delle tue esperienze con Scorsese?

YCJ: Quando ho lavorato in “Gangs of New York” di Martin Scorsese avevo una piantina per muovermi sul set: mi sono perso due volte e mi hanno chiamato all’altoparlante. Gli scenografi Dante Ferretti, Francesca Lo Schiavo e Bruno Tempera avevano ricostruito la New York dell’epoca, anche il ciottolato.

MV: E Ridley Scott?

YCJ: L’esperienza più bella, perché ho avuto più tempo, quasi un mese sul set e l’ho visto lavorare tutti i giorni. Per “The Vatican” mi hanno scelto per la parte di un prete, cosa difficilissima in una produzione italiana. Il provino è durato un’ora con lui in persona: mi tremavano le mani. Pensavo non mi avessero preso, invece andò bene. Lui è stato una sorpresa. Appare molto glaciale, rispetto a Scorsese che è più mediterraneo: nel lavoro è severo, esigente, meticoloso, ma con le persone è di grande umanità sotto tutti i profili e non ha alcun tipo di atteggiamento da divo. Il primo giorno sul set disse a noi del cast principale: “Non iniziate con sir o mister. Io sono Ridley, punto. Se avete bisogno di parlarmi, venite direttamente da me”. E capitava che al mattino mi chiedesse se avevo preso il caffè, così andavamo insieme a berlo e iniziavamo a studiare la parte.

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