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Breve viaggio nel Marocco sotto casa

Racconto. La nostra città accoglie circa 20mila cittadini di origine straniera. Secondo gli ultimi dati Istat, il 6,8% proviene dal Marocco. Souad, guida del progetto «Migrantour», ci offre uno sguardo sulla comunità marocchina bergamasca

Lettura 5 min.

Souad mi aspetta paziente dall’altro lato della strada, vicino alla Coin di via Zambonate. Un velo viola le incornicia il viso, la gonna lunga spunta da sotto il cappotto nero. «Come stai?» mi chiede non appena la raggiungo, distendendo un sorriso. Oggi lei sarà la mia guida. Souad ha trentaquattro anni e si è trasferita qui da Rabat, la capitale del suo Paese, all’età di dieci anni. «Ora il mio sogno è diventare pasticciera e aprire un ristorante marocchino» mi racconta, con un accento che contamina Bergamo e Nord Africa.

Dopo pochi passi, ci troviamo in via Quarenghi, una delle strade più multiculturali della città e, non a caso, quella che ospita il maggior numero di tappe «Migrantour» , un progetto di turismo responsabile che consente ai cittadini con background migratorio di ideare e condurre «passeggiate interculturali». L’obiettivo è promuovere la ricchezza delle altre culture e guardare la propria città con uno sguardo diverso – mi spiega la mia guida – mentre indica i punti del suo itinerario, che di solito espone a turisti e a scuole.

Dopo diverse vetrine internazionali, ci fermiamo di fronte alla macelleria Nour, gestita dai compaesani di Souad. «Solo in posti come questo – precisa – ogni prodotto è “ḥalāl”, ovvero “lecito”, perché conforme alle norme della legge islamica». Il credo islamico vieta il consumo della carne di maiale e impone che bovini, ovini e caprini al momento dell’uccisione siano rivolti verso La Mecca, che siano coscienti e che muoiano per dissanguamento, provocato recidendo la trachea e l’esofago con una lama ben affilata. In questo modo, continua Souad, «non soffrono e la loro carne viene privata dalle impurità».

Durante la sua spiegazione, d’istinto mi viene da torcere il naso. Con l’aiuto della mia interlocutrice, scopro però che per la cultura e la religione islamica le macellazioni rituali sono molto più di una semplice pratica alimentare e costituiscono invece un vero e proprio elemento di culto, come avviene anche per l’Ebraismo. Sacralizzando la procedura di uccisione dell’animale, si vuole sottolinearne la gravità e la solennità: non è un atto ordinario, banale, che può essere compiuto senza riflettere sul fatto che esso significa dare la morte ad un essere vivente. Lo scopo è quindi quello di ricordare all’uomo che egli non dispone arbitrariamente degli altri esseri viventi: se ne può servire, ma soltanto all’inter-no di un orizzonte di senso che, per l’Islam, è definito dal riferimento a Dio.

Mi si chiarisce così un primo tratto significativo della cultura marocchina, ovvero l’insolubile legame con la religione islamica. A conferma di ciò, nel negozio sono presenti dei quadri raffiguranti alcuni versetti del Corano: «L’Islam è uno stile di vita», commenta Souad, mentre mi mostra il profumo di muschio che gli uomini musulmani si mettono il venerdì, giorno sacro, o il sapone nero, ideale per la purificazione del corpo prima della preghiera. Ogni prodotto racchiude antiche usanze che la giovane mi racconta con naturalezza e convinzione: i sacchi di zucchero che una volta si regalavano alle spose marocchine, le teiere cesellate dai maestri artigiani per preparare il tè alla menta, i datteri, da mangiare dopo aver interrotto il digiuno in numero dispari e con la mano destra, poiché utilizzare la sinistra è ḥarām ovvero «proibito».

Prima di uscire dalla bottega, Souad si mette in ascolto della voce araba proveniente dalla radio: «sono i versetti del Corano» mi informa e con un cenno della testa mi invita a seguirla verso un altro locale marocchino. Pochi metri dopo, entriamo in un ambiente piccolo, riempito dai fumi della cucina. Alla griglia, tre uomini preparano dei tacos farciti con carne halal . «As-salāmu ʿalaykum» («La pace sia con te») dicono a Souad, che ordina in arabo il nostro pranzo e insiste ad offrirmelo. «Sei mia ospite oggi» è la sua giustificazione.

Intanto, fuori dalla porta, soffia il vento gelido di gennaio. Credo sia retorico chiedere di rimanere dentro per mangiare e invece: «No, mi vergogno!» esclama Souad con un sorriso imbarazzato. Una volta uscite dal locale, mi spiega che, essendo sposata, si sentiva a disagio a rimanere lì, con possibili sguardi indiscreti da parte degli uomini presenti nel locale. «Le donne, di solito, devono abbassare lo sguardo quando si trovano di fronte ai maschi» prosegue, mentre camminiamo verso la successiva tappa della giornata con il pranzo ancora caldo in una busta.

Non sembra dispiaciuta o contrariata mentre mi elenca tutte le accortezze che le donne musulmane per bene devono osservare. Dentro di me, al contrario, cominciano a ribollire molte domande che riesco a sintetizzare solo chiedendole: «Ma non c’è nessuna donna che si ribella?». Souad replica calma che, secondo lei, «una volta che una capisce il motivo di certe pratiche, sa che è giusto così». La sua risposta, personale e dunque parziale, non mi convince, ma il pullman 1C diretto a Boccaleone inter-rompe le mie obiezioni. Lo prendiamo per andare in Moschea ma, quando scendiamo, alla nostra fermata non vediamo né la tradizionale cupola né il minareto.

Souad mi invita allora ad entrare in uno stabile che si trova letteralmente sotto un ponte: è lì che si riunisce l’Associazione musulmani di Bergamo. «Per noi è importante avere un posto dove pregare, per questo ci piacerebbe una Moschea spaziosa e simile a quelle che ci sono nel nostro Paese» commenta Souad, quasi rispondendo alla mia delusione, mentre si toglie le scarpe e mi invita a fare altrettanto.

Entriamo così in un salone ampio e curato, con il pavimento ricoperto da un tappeto rosso e decorazioni oro. La mia guida mi conduce subito di fronte alla nicchia inserita nel muro portante: è la mihrab e indica la direzione verso La Mecca; a fianco il minbar, ovvero il pulpito da cui l’Imam dirige la preghiera. Sulla parete, un tabellone indica gli orari della ṣalāt, cioè la preghiera: all’alba, a mezzogiorno, al pomeriggio, al tramonto e di notte. «Ognuno di questi momenti deve avvenire in uno stato di purità rituale, “ṭahārä”» puntualizza Souad per poi mimare i gesti che accompagnano la preghiera. «È fondamentale essere puri anche per maneggiare il libro sacro» continua, alzandosi da terra e portandomi di fronte alla libreria del centro. «Quando una donna ha le mestruazioni, per esempio, non può toccare il Corano, al massimo con i guanti». Sposto il mio sguardo dalle sue mani alle mie: sono uguali, eppure si devono comportare in modo diverso, seguendo ognuna la propria cultura. Continuo a osservarle con curiosità e stupore, mentre Souad sfoglia il testo sacro.

Qualcuno all’improvviso bussa alla porta: è sua sorella minore, Firdaous. Nata in Italia, ha 23 anni e studia Mediazione linguistica all’Università di Bergamo. Decido di rivolgerle la domanda lasciata in sospeso alla fermata del bus: «Come vivi l’Islam in quanto donna?». Lei non si scompone e con sguardo deciso e accogliente afferma: «Per me, è la religione del Vero, un modo per rapportarsi al mondo odierno. Non la vivo come costrizione». Mi mostra poi un foglio su cui c’è scritto un versetto del Corano e aggiunge: «Il velo è un segno di protezione, quasi un modo per onorare la donna».

Mentre Firdaous mi racconta la sua visione, non posso evitare di notare la “palizzata” alle sue spalle che divide il salone nella parte dedicata agli uomini – più grande – e quella dedicata alle donne – decisamente più piccola. «Vuoi sapere i cinque pilastri dell’Islam?» continua lei incuriosita, per poi contarli sulle dita della mano: la testimonianza di fede (Shahādah), la preghiera (Ṣalāt), l’elemosina ai più bisognosi (Zakāt), il digiuno (Ṣawm) e, infine, il pellegrinaggio a La Mecca per chi se lo può permettere fisicamente ed economicamente.

La predisposizione di Firdaous nei miei confronti mi porta a chiederle altre curiosità. Mi viene così spiegato il significato fraterno del saluto che i musulmani si scambiano tra loro o l’usanza delle famiglie marocchine di mangiare tutti dallo stesso piatto. Al racconto si unisce anche Souad, che propone di uscire dalla Moschea e andare in un negozio marocchino per mostrarmi proprio i tradizionali tajin , i tipici piatti di terracotta composti da una parte inferiore piatta e circolare ed una parte conica superiore che viene appoggiata sul piatto durante la cottura di pietanze come il cous cous.

Ci dirigiamo allora verso La boutique della carne e, nel frattempo, mangiamo i nostri tacos, ancora tiepidi. Mentre chiacchiera, Souad prende un pezzo del suo pranzo per darlo a Firdaous e quando, inevitabilmente, gran parte della salsa esce dal panino, esclama ridendo: «Eh pota!». Assisto alla scena intenerita dalla loro spontaneità e dall’accoglienza che mi hanno mostrato facendomi visitare i luoghi quotidiani e anche quelli più sacri della comunità marocchina. Il nostro dialogo prosegue nel tentativo di metterci una nei panni dell’altra e di accettare che alcune questioni rimangano senza una risposta precisa.

Si conclude così il mio viaggio nella cultura marocchina. Mi ha scosso, stupito, a volte, irritato, ma soprattutto mi ha lasciato una preziosa consapevolezza, cioè che l’unico modo per conoscere il “diverso” sia incontrarlo con rispetto, senza però tradire sé stessi. Fuori dal negozio, ci ringraziamo e salutiamo, con la promessa di rivederci, per poi tornare ognuna alle proprie vite in una città che tutte, magari in modo diverso, possiamo chiamare «casa».

(Tutte le foto sono di Federica Pirola, tranne ove indicato)

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